Islam e Islamismo

Elogio della paura

In occasione di ogni attentato terroristico, puntualmente, voci autorevoli come quelle del Papa, del Presidente della Repubblica e dei vari leader europei, o più profane come quelle di editorialisti e commentatori vari, ci invitano a non cedere alla paura. Un mantra che, se da un lato scongiura l’effettivamente pericolosa deriva verso la psicosi che si innesca quando si inizia ad avere paura della paura stessa, dall’altro suona straniante e totalmente avulso dalla realtà nella misura in cui sembra oscillare pericolosamente tra miopia e mistificazione autoconsolatoria in buona fede.

La paura è uno degli strumenti più preziosi che esseri umani e animali hanno a disposizione. Negarla significa procedere a cuor leggero verso il baratro. Perché non dovremmo avere paura quando ci rendiamo conto che è in atto nei nostri confronti una violenza senza precedenti e totalmente incomprensibile attraverso le nostre categorie, che ci sta attaccando ovunque e senza pietà, senza quel minimo di regole che anche le più sanguinose guerre del passato avevano rispettato, che uccide i nostri bambini che guardano, in una sera d’estate, lo spettacolo dei fuochi d’artificio, una violenza attuata con un camion, che non ci dà né tregua né rifugio, spingendoci a pensare che quello che sta succedendo è fuori dalla nostra comprensione e quindi dal nostro controllo e dalla possibilità di una reazione?

Ma da cosa nasce la necessità di questi appelli? Perché di necessità si parla se, di fronte a questo quadro apocalittico, il primo pensiero delle nostre voci autorevoli non è quello di dare risposte o proporre reazioni o soluzioni ma di invitare alla calma.

Ci pare che questa necessità possa essere spiegata attraverso due dinamiche collegate tra loro.

La prima motivazione che sta alla base dell’accorato appello a non cedere alla paura sembra risiedere nel fatto che per ora la matrice islamica degli attentati viene letta soltanto come un’evidenza empirica – anzi, a volte viene negata nonostante i messaggi degli attentatori e le rivendicazioni – rivelata dai fatti ma non dimostrata da un legame strutturale se non tra Islam e terrorismo almeno tra terrorismo e Islam e dal fatto che l’odio trova facilmente legittimazione se non nel Corano di certo nella propaganda del fondamentalismo islamico – non solo dell’Is – e nella lettura che della Scrittura certi Imam, anche italiani, fanno.

Ammettere una reazione umana e necessaria come la paura implicherebbe infatti due conseguenze che, come pensiero dominante, non siamo ancora pronti a sostenere: l’identificazione del nemico e il riconoscimento del terrorismo islamista come fenomeno storico.

E invece i nostri illustri politici e commentatori attendono e ci invitano alla calma. Cercano alibi, processano le intenzioni degli attentatori per assolverli, vogliono convincerci – e probabilmente convincere se stessi – che possiamo vincere la guerra in corso con sorrisi e fiaccolate, combattere l’odio con l’amore, l’intolleranza con la tolleranza. Innescano quel meccanismo autoconsolatorio di rimozione che permette di dormire sonni tranquilli nonostante l’evidenza del pericolo. Come quei genitori che, nonostante una marea di indizi, non vedono o non vogliono vedere i problemi del figlio.

Sul fatto che poi una regola empirica non sia sufficiente a legittimare una reazione, facciamo solo un esempio: il fatto che la forza di gravità sia stata codificata come legge fisica solo nel XVII secolo non ha impedito che, prima del lavoro di Newton, le persone sane di mente si tenessero a debita distanza da cornicioni e dirupi. È vero che capire è fondamentale per combattere il nemico ma la comprensione deve essere funzionale alla propria sopravvivenza, esattamente come la paura. Se nel tentativo di capire veniamo sgozzati, la nostra ricerca di risposte sarà disfunzionale perché invece che innescare l’azione è tale da inibirla. E perché la comprensione sia funzionale occorrono due cose, che all’orizzonte intellettuale e politico al momento non si vedono: velocità e coraggio.

La seconda motivazione che sembra di leggere dietro agli appelli alla calma è la semplice necessità di rimanere all’interno di una schema di categorie conosciuto, al di fuori del quale mancherebbero totalmente idee e mezzi per affrontare il pericolo che sarebbe, a quel punto, ammesso.
Trattenere – soprattutto – fenomeni sconosciuti e pericolosi all’interno della nostra possibilità di decodifica e di comprensione è una tendenza abbastanza normale e legittima nell’individuo, che utilizza gli strumenti che ha a disposizione, non può però esserlo per lo Stato.
La politica deve essere in grado di prendere atto dell’esistenza di fenomeni sconosciuti – ma poi davvero così sconosciuti? – e di offrire spiegazioni, o almeno sicurezza e reazioni. Gli inviti alla calma sarebbero legittimi se accompagnati non dall’assoluzione delle motivazione degli attentatori attraverso diagnosi di depressione, follia o esclusione sociale ma dalla chiara identificazione del nemico e dall’attuazione di misure efficaci e convincenti per contrastare il terrorismo.
Quando parliamo di individuazione del nemico non ci riferiamo ovviamente al fatto che tutti i musulmani debbano essere considerati pericolosi, lo Stato non può correre il rischio di innescare pogrom e deve comunque garantire la tenuta sociale, che tuttavia sarebbe probabilmente più a rischio in presenza di uno Stato assente che di uno allarmista.
Ci riferiamo al fatto che debba essere messa in chiaro la matrice islamica degli attentati; la piega potenzialmente devastante che la religione del Profeta ha preso da decenni a questa parte e che forse ha sempre avuto all’interno del sistema di pensiero di riferimento, più o meno latente; la capacità della propaganda islamista di attirare ragazzi “normali” spingendoli ad uccidere e a correre incontro al martirio in cambio della promessa della gloria e di un paradiso di vergini.

Occorre leggere il fenomeno ammettendo che esca dai nostri schemi ed essere capaci noi stessi di uscire – temporaneamente – dai meccanismi che stanno alla base delle nostre democrazie, se necessario. La nostra maturità democratica si misurerà nella capacità di derogare agli stessi valori che vogliamo difendere. Occorre capire che viviamo in una fase non post ideologica ma pre ideologica, o meglio pre fideistica. Essere disposti a combattere un fenomeno anche se ci è impossibile capirlo fino in fondo. Avere più volontà di difendere ciò che amiamo che paura di apparire islamofobi. Avere coraggio, anche di avere paura.

L’incapacità di capire il nuovo rappresentato da Hitler e i tentativi di incasellarlo nelle vecchie categorie – che davano a lui la dignità di interlocutore e a Churchill del guerrafondaio – spianarono la strada all’invasione della Polonia e fecero scivolare l’Europa e il mondo nella catastrofe.

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