Editoriali

Il burkini e la libertà di non essere liberi

La questione del burkini, al di là del merito, è riconducibile sostanzialmente alla domanda: si è liberi di non essere liberi?

Secondo il moderno concetto di libertà, quello che trova la sua legittimazione filosofica nell’interpretazione che di libertà dà Rousseau, no. Anzi, secondo Rousseau, il cittadino sarà “costretto ad essere libero”. Il ragionamento parte dall’idea di libertà come volontà e di volontà come volontà collettiva. In questo senso il cittadino trova la propria libertà nel rispetto delle leggi, che del soggetto collettivo di cui fa parte, nella fattispecie lo stato, sono proiezione. Citando testualmente il filosofo ginevrino, “l’obbedienza alla legge che ci siamo prescritti è la libertà”.

La stessa impostazione laicista della società francese, se per quanto riguarda il merito trova le sue origini nella concezione illuminista dello stato, dal punto di vista del metodo conferma quanto indicato da Rousseau, ponendosi come argine rispetto al rischio di ignoranza e oscurantismo che la religione, secondo questa interpretazione, porta con sé, un argine espresso dalla volontà generale, codificato nelle leggi dello stato e oltre il quale il cittadino, libero nel rispetto della legge, non ha il diritto di andare. Non c’è, in altre parole, una libertà di ignoranza e di non libertà. La volontà del singolo, nella dimensione sociale che sta alla base di questo tipo di libertà, definita “positiva”, non conta, non è ammessa se non come errore, conta la volontà generale nella quale la volontà del singolo si annulla per trovare in quella collettiva la propria dimensione e la propria completa realizzazione in quanto parte del tutto organico che è la società.

A questa concezione sociale della libertà si oppone dialetticamente quella di libertà “negativa” tipica della concezione liberale dello stato, che trova nell’individuo il proprio fulcro e nell’assenza di impedimenti o di costrizioni la piena realizzazione della libertà. La libertà è quindi il margine di movimento e di azione non limitato dalle leggi. Più libertà significa, in questo senso, meno stato. Se la libertà positiva ha come presupposto la volontà, quella negativa, come spiega Norberto Bobbio in Eguaglianza e libertà, trova nell’azione la propria qualifica.

Ora, appare evidente che la legislazione francese che vieta simboli religiosi nel luoghi pubblici, è figlia di questa concezione russoviana della libertà: “Chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo, lo si obbligherà ad essere libero”. E tutto è filato liscio – salvo qualche fisiologico dibattito non sufficiente a determinare un cambio di rotta – finché la produzione legislativa ha avuto come oggetto le religioni in generale, e nella fattispecie il crocefisso, percepito come simbolo della mancanza di laicità dello Stato. Il problema è iniziato nel momento in cui il limite invalicabile oltre il quale il cittadino non può spingersi, pena la non legittima rinuncia alla propria libertà, è stato identificato con l’Islam. Nulla metodologicamente cambia: come un ufficio pubblico non può esibire simboli religiosi, come un uomo non può picchiare una donna nemmeno se questa è consenziente, come un datore di lavoro e un dipendente non possono stipulare un contratto di 20 ore al giorno nemmeno se sono d’accordo, come in società occorre mantenere un certo tipo di decoro codificato per legge e che impedisce di passeggiare nudi per Rue de Rivoli, così la legislazione, frutto della volontà collettiva e all’interno della quale il singolo trova la sua libertà, stabilisce che il velo in spiaggia, abbinato alla muta integrale sul corpo della donna, è incompatibile con i valori che stanno alla base della cultura francese e che vedono nel burkini una negazione della libertà della donna. In altre parole lo Stato, attraverso la produzione normativa, si fa interprete del concetto di libertà e vieta il diritto alla non libertà che sarebbe implicato dall’uso del costume islamico, definito dal Primo Ministro Valls “l’espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna”. L’idea che la singola persona possa voler indossare il burkini è un problema che non riguarda il legislatore o il sindaco che emette l’ordinanza di divieto; come detto, nell’ambito della libertà positiva l’individuo trova la sua libertà nella libertà collettiva e la sua volontà è e non può non essere quella collettiva, e infatti non è dato il caso di una volontà individuale che si ponga contro quella generale. E se si dà, quella collettiva rappresenta una tutela nei confronti della volontà individuale, illegittima in quanto non corrispondente a quella generale. In altre parole l’individuo che “volesse” non essere libero, è protetto da sé stesso e dalla propria volontà dalla superiorità della volontà generale e dalla legislazione che ne deriva.

Ma come conciliare questa visione, storicamente cara tanto alla gauche, con il confronto con una cultura come quella islamica? Come ammettere quella che, essendo una misura mirata e destinata esclusivamente alla religione islamica, risulta nel merito come una misura discriminatoria, razzista, islamofoba? Come far rientrare dalla finestra la libertà dell’esibizione della religione islamica senza accettare in blocco tutta la sfera religiosa fin qui bandita come contraria alla libertà del cittadino e quindi senza piombare nell’esatto contrario dello stato giacobinamente laico tanto voluto in Francia, ossia in uno stato totalmente libero dal punto di vista religioso, in cui le pratiche religiose si pongono addirittura in contrasto o come superiori alla legge e nel quale esse condizionano la produzione legislativa che delle istanze delle diverse fedi deve tenere conto?

Poco importa, ovviamente, che l’Islam porti con sé una problematica legata al rispetto della donna che altre religioni non hanno e che di per sé potrebbe giustificare un divieto mirato, al di là della volontà della singola persona che la legge non può e non deve tenere in considerazione come della volontà del singolo la legge non tiene conto in una miriade di altri casi, ragionando per tutti e non potendo proporre soluzioni su misura. Se si accettasse una giornata lavorativa di 20 ore sulla base del fatto che qualcuno ha la forza, l’energia, la passione o il bisogno di lavorare tanto, lo Stato non garantirebbe più quella giustizia sociale di cui deve essere custode. In altre parole lo Stato non può prendere in considerazione la volontà – anche ammessa – della singola donna. Ma poco importa, abbiamo detto, perché la misura sarebbe discriminatoria.

Occorre quindi un cambio di impostazione, in questo passaggio cruciale, ed è quanto stiamo assistendo nel dibattito apparentemente ridicolo sul burkini: la visione islam-compatibile della libertà di culto pare lavorare sullo stesso concetto di volontà per arrivare a quello di azione, spostando la prima dal livello collettivo a quello individuale e legittimando così la seconda, ma come ritiro – e rinuncia – della legge e non come avanzamento della libertà che dalla non-legge deriva. Non più quindi una visione di libertà positiva basata sulla volontà e sulla sua dimensione sociale e non più la libertà negativa basata sull’assenza di impedimenti e costrizioni, sull’individuo e su un’azione che porti alla realizzazione e al miglioramento sociale e personale del cittadino, ma una libertà ibrida, fondata su una volontà del singolo che non ci si arroga il dritto di giudicare nella sua legittimità, anzi basata sulla presunzione di legittimità derivante dall’azione stessa. Come a dire: se la donna usa un costume integrale nero con 40 gradi evidentemente vuole farlo. Non c’è modo infatti di sapere se la donna islamica sia oggetto di lavaggio del cervello. E, tacitamente si ammette, anche se lo fosse la sua volontà sarebbe ugualmente legittima. O comunque non meno legittima di quello che ha ricevuto la donna occidentale in perizoma e schiava della violenza rappresentata da tacco 12, diete e palestre. Una libertà, quindi, di non essere liberi, se la mancanza di libertà è frutto della volontà. Anzi, la stessa libertà della donna di non essere libera viene vista non come il paradosso di un atteggiamento eccessivamente remissivo nei confronti dell’Islam – il quale atteggiamento permette di salvarsi dall’accusa di islamofobia sacrificando però una battaglia storica e non ancora vinta come quella per la parità di genere – ma come la tanto attesa piena realizzazione della possibilità della donna di decidere per sé, anche di essere schiava e sottomessa, senza che l’uomo – infatti è la donna che vuole il velo o il burkini – o lo Stato – attraverso le leggi – mettano il becco nelle sue decisioni e la costringano ad essere libera se non vuole.

E poco importa se uno degli argomenti principali di quanti sono contrari al divieto vede in questo il rischio di una definitiva segregazione della donna all’interno della casa, ammettendo così la sua sottomissione nell’ambito familiare. Poco importa perché, come abbiamo detto, secondo questa impostazione della libertà di non essere liberi, se la donna vuole essere sottomessa, deve poter essere sottomessa e anzi, il fatto stesso che si faccia sottomettere è la prova – in assenza di una prova contraria che difficilmente si troverà – della sua volontà in quel senso.

E al di là del paradosso della deriva apparentemente liberale di un ragionamento tipicamente sociale, in cui la libertà, oltre alla già dimostrata presunzione di legittimità della volontà del singolo, si determina attraverso la non costrizione o imposizione (di non indossare il burkini), i ragionamenti che si pongono sono due.

Il primo è che se la concezione di Rousseau, pur essendo sostanzialmente ideologica, in quanto pretendeva di incanalare la realtà attraverso l’idea che della realtà dalla sua filosofia emergeva, con la conseguenza del mare di sangue versato durante il Terrore, rimaneva la chiara proiezione di un sistema di valori che vedeva nella Francia lo Stato chiamato alla missione storica della difesa della libertà e della liberazione del genere umano dalle catene dell’ignoranza e della religione, di contro il concetto di libertà del nuovo modo di concepire il rapporto con le religioni derivato dal contatto con l’Islam, più che ideologico sembra assoluto, nel senso di sciolto, svincolato dalla matrice che lo produce. In questo senso la mancanza di divieti non rimanda, come sembrava, ad un atteggiamento liberale, che argini l’ingerenza dello Stato a tutela del cittadino, ma alla rinuncia ad una produzione legislativa che sia proiezione di un sistema di valori riconducibile ad una determinata cultura – quella che lo produce – e a qualunque forma di argine – culturale, educativo, civile – all’oscurantismo, legittimato dal fatto di essere, questo sì, un prodotto culturale, ma altrui, e quindi giustificato e intoccabile.

Il secondo spinge a ipotizzare gli scenari che questo atteggiamento nei confronti della libertà religiosa possono derivare. Il fatto che la non presenza dello Stato nelle faccende di fede del cittadino non sia determinata da una concezione liberale e attiva della libertà ma dalla rinuncia alla legislazione come proiezione di un sistema di valori porrà gravi problemi di natura non solo legislativa, per la coerenza della nuove leggi nel corpus esistente, ma giuridica e giurisprudenziale, per l’applicazione delle leggi e per il riflesso che certe libertà esasperate avranno sul sistema di norme che regola il nostro stato e gli stati di diritto in generale.

Infine sarebbe un gravissimo errore credere che lo Stato multiconfessionale appena creato abbia come suo tratto distintivo la rinuncia all’identità valoriale che lo ha determinato e la conseguente equiparazione di tutte le forme di culto. Essa rappresenta infatti il suo atto fondativo, non certo la sua natura, soprattutto nella misura in cui non ci sono elementi che facciano ritenere che coloro per i quali questa rivoluzione copernicana è stata fatta, oltre ad accettarne i vantaggi, ne facciano loro il metodo.

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