Editoriali

Svastiche su Gaza, di Martin Sherman

Niente potrebbe svelare la reale intenzione delle rivolte anti-ebaiche al confine con Gaza più delle svastiche in stile nazista, spudoratamente stampate sulle numerose  dozzine di aquiloni incendiari fatti volare in Israele con lo scopo intenzionale di dare fuoco alle abitazioni e alle coltivazioni ebraiche – e se è possibile anche agli ebrei.

Eppure, nonostante la natura palesemente violenta dell’attività di molestia sul confine e nelle vicinanze, e le feroci esortazioni della leadership di Gaza a massacrare gli ebrei, Israele viene scorticato vivo nei tribunali internazionali per il presunto uso ingiustificato della forza letale onde evitare che i suoi confini fossero violati da un’orda apertamente omicida.

Crogiolo, non vittima

In effetti, occorre poca fantasia per immaginare le sanguinose conseguenze, se solo pochi fanatici deliranti – perversamente definiti “manifestanti” – dovessero abbattere la barriera di sicurezza e facessero irruzione in una vicina comunità ebraica. Non vi è dubbio che massacrerebbero i residenti, sventrerebbero le donne e raderebbero al suolo le abitazioni. Dopo tutto è esattamente questo ciò che i loro leader li hanno esortati a fare.

Così, una settimana prima che il capo politico di Hamas aveva invitato gli abitanti di Gaza “a strappare i loro cuori [degli ebrei] dai loro corpi”, ha spostato l’attenzione anatomica e ha chiesto loro di “mangiare il fegato” degli ebrei al di là del confine.

Si può solo immaginare il clamore che sarebbe stato destato, se un leader israeliano avesse usato una retorica così macabra nei confronti degli arabi-palestinesi. Ma quando una simile retorica è usata dagli arabi contro gli ebrei, si ode solo un grido sommesso di protesta! È solo una mia impressione  oppure questa è una manifestazione di una ipocrisia di bassa lega?

Due ridicole scuse rimbalzano nei media mainstream per le continue dimostrazioni di ostilità al confine di Gaza. Entrambe mostrano gli abitanti di Gaza come vittime o (a) come vittime della loro leadership e/o  (b) come vittime dell’assedio repressivo di Israele della povera enclave.

Per quanto concerne la prima scusa accampata, gli abitanti di Gaza non sono le vittime innocenti della loro leadership. È esattamente il contrario! Sono il vero crogiolo in cui si è formata quella leadership, e dal quale è emersa.

A sottolineare questo, un sondaggio, condotto meno di un anno fa da un importante istituto demoscopico palestinese, aveva rilevato che l’85 per cento degli abitanti di Gaza era favorevole a continuare a mantenere economicamente “i detenuti per motivi di sicurezza” (leggasi “terroristi in carcere”), che hanno ucciso a sangue freddo innumerevoli israeliani.

La sensibilità israeliana nei confronti degli abitanti di Gaza dovrebbe quindi essere commisurata a questi sentimenti.

Confondere la causa con la conseguenza

Addirittura, un sondaggio aggiornato, condotto questo mese dallo stesso istituto palestinese, ha mostrato che gli abitanti di Gaza sono poco pentiti di aver votato Hamas. Pertanto, secondo questi dati, nelle future elezioni presidenziali, Ismail Haniyeh, leader di Hamas, sconfiggerebbe lo storico presidente Mahmoud Abbas di Fatah per quasi due a uno!

Queste preferenze dell’opinione pubblica di Gaza ci portano all’altra presunta affermazione di “vittimismo” in merito all’isolamento per motivi di sicurezza imposto da Israele.

Il ritornello che attualmente arieggia è quello che la violenza scoppiata al confine è il risultato di una repressa frustrazione della popolazione per le terribili condizioni socio-economiche che prevalgono nella Striscia di Gaza: l’acqua in gran parte non potabile, perenni blackout elettrici, riversamenti delle acque di scolo e spiagge contaminate. La colpa di queste pessime condizioni viene attribuita a Israele per le presunte restrizioni imposte all’economia di Gaza. Quindi, secondo questo cosiddetto “ragionamento” l’unica soluzione possibile è revocare la quarantena, o almeno allentarla, per alleviare lo sconforto e la disperazione della povera e sofferente popolazione.

Tuttavia, è palesemente e indiscutibilmente chiaro che l’imposizione dell’isolamento a Gaza è la conseguenza – e non la causa – della inimicizia araba nei confronti di Israele.

È il risultato e non il motivo dell’incitamento giudeofobico e dell’aggressione anti-ebraica che sono diventati il segno distintivo di Gaza da quando Israele ha evacuato unilateralmente l’enclave, ben oltre un decennio fa – e di recente così inconfutabilmente illustrato dalle svastiche che sorvolano sulle folle infiammate, dagli slogan inneggiati per invocare il massacro degli ebrei e la distruzione del loro Stato.

L’antisemitismo incipiente: Pretendere che gli ebrei muoiano senza opporre resistenza

Di conseguenza, poiché l’isolamento per motivi di sicurezza è stato imposto per proteggere gli ebrei dagli arabi che cercavano di ucciderli, le richieste di rimuoverlo o di mitigarlo sono intrinsecamente antisemite. Poiché il significato ineluttabile di tali pretese è quello di minare la capacità degli ebrei di difendersi da coloro che attendono di massacrarli, esse sono di fatto un invito agli ebrei a morire senza opporre resistenza o almeno a non disturbare troppo gli aspiranti assassini. Inoltre, le richieste di maggiori aiuti umanitari sono un  fallace “depistaggio”, intenzionalmente fuorviante e ingenuamente maldestro.

In effetti, per anni, Gaza è stata destinataria di massicci aiuti umanitari – fra i più ingenti del pianeta – sia da parte delle risorse internazionali sia da parte di Israele. Costantemente, Israele – qualcuno potrebbe dire iniquamente – consente ogni settimana a migliaia di camion carichi di merci di migliorare il benessere di una popolazione, che se potesse farebbe a pezzi i cittadini israeliani “strappando il loro cuore” e “mangiando il loro fegato”, per ribadire le esortazioni della loro leadership.

Tuttavia, deplorevolmente e sistematicamente, la maggior parte degli aiuti umanitari viene tempestivamente espropriata da Hamas per i suoi scopi nefandi e per riempire le proprie case – e quelle dei compagni di merende. Pertanto, quasi inevitabilmente, qualsiasi allentamento delle attuali restrizioni di sicurezza sarebbe sfruttato dalle organizzazioni terroristiche – come è avvenuto in passato – per perpetrare ulteriori attacchi agli israeliani.

Gli attuali aiuti umanitari perpetuano il conflitto

La difficile situazione socio-economica non è né la conseguenza della penuria di denaro né di alcuna mancanza di generosità da parte di Israele. Al contrario, gli abitanti di Gaza hanno goduto a profusione di denaro e di generosità. Ed entrambi sono stati intenzionalmente utilizzati impropriamente.

In effetti, ci vorrebbe una mente eccezionalmente contorta per credere che Israele abbia investito enormi sforzi e risorse per costruire una barriera costata molti miliardi di shekel — di oltre 6 metri di altezza e di 40 metri di profondità sotto terra – descritta dal capo di Stato maggiore dell’Idf, Gadi Eizenkot, come il  “più grande progetto” mai realizzato nella storia militare di Israele, soltanto per rendere gli abitanti di Gaza più disperati anziché rendere più sicuri gli israeliani.

Dopo tutto, la visione dominante (seppur erronea) dell’establishment militare e politico di Israele è che una Gaza prospera, che presumibilmente sarà anche pacifica, è un interesse israeliano. Pertanto, Israele dovrebbe fare di tutto per evitare una crisi economica nella Striscia di Gaza.

Questo è un grave errore.

Gaza è arrivata a toccare i suoi attuali abissi, non a causa della mancanza di dollari o di un deficit della buona volontà israeliana – ma a causa della natura brutale e disfunzionale della sua società. Maggiori finanziamenti e più clemenza israeliana non ovvieranno a questa situazione. Al contrario, non faranno altro che esacerbarla. Peggio ancora, non potranno che prolungare il conflitto, aumentare il numero delle vittime, permettere al nemico di migliorare le proprie capacità  ed estendere le sofferenze che erano destinate a finire.

“…una cicatrice automatica nella memoria collettiva araba…”

Nell’ottobre 2000, quasi due decenni fa, subito dopo lo scoppio di quella che è diventata nota come la Seconda Intifada, scrissi un editoriale (in ebraico), in cui avvertivo che “l’attuale esplosione di violenza non finirà senza l’uso di una massiccia forza militare che lascerà una cicatrice traumatica nella memoria collettiva nazionale degli arabi”.

Oggi, quasi due decenni dopo, Israele sta risentendo delle conseguenze della sua inspiegabile – e apparentemente inspiegabile – reticenza a usare il suo schiacciante predominio militare per ottenere una vittoria strategica sui suoi avversari molto più deboli – e una sicurezza duratura per la sua stessa popolazione.

Così, a nord, ha permesso a Hezbollah di sfruttare i periodi di calma per evolversi, trasformandosi da un piccolo gruppo di guerriglieri capace di nuocere in una significativa minaccia strategica, con oltre 100 mila missili, molti dei quali guidati con precisione, capaci di colpire praticamente qualsiasi obiettivo – militare o civile – nel paese.

Allo stesso modo, quando Israele attuò il ritiro unilaterale da Gaza, l’arma più formidabile di Hamas era un razzo primitivo con una carica esplosiva di 5 kg e una gittata di 5 km. Oggi, Hamas ha potenziato le proprie capacità al di là dell’immaginabile – disponendo non solo di missili in grado di coprire distanze fino a 100 km e con testate di 100 kg, ma di un dedalo di tunnel di attacco sotterranei, di forze navali e sta sviluppando la sua esperienza nei droni.

E così, sebbene gli abitanti di Gaza abbiano miseramente fallito nello sviluppo delle basi socio-economiche della loro società, hanno però dimostrato di avere considerevole iniziativa e creatività nello sviluppo di mezzi e metodi terroristici. Di conseguenza, sarebbe un grave errore sottovalutare l’attuale minaccia di violazioni di massa del confine da parte di folle omicide. Infatti, più a lungo durano i tentativi, più è probabile che si mettano a punto nuove tattiche e mezzi per sfidare le contromisure dell’Idf.

Decenni di inadempienza del dovere diplomatico

Ma al di là delle implicazioni operative profondamente dannose nel lasciare che la violenza alla barriera di sicurezza si protragga, le implicazioni in ambito diplomatico sono ancora più allarmanti.

E questo perché, come abbiamo visto in passato, anche se Israele gode di comprensione all’inizio di alcuni scontri violenti (come l’offensiva del 2006 contro Hezbollah), questa si esaurisce rapidamente con il passare del tempo. In effetti, scontri prolungati consentono ai detrattori di Israele di mobilitarsi, di escogitare macchinazioni contro Israele, di ottenere il sostegno per lanciare accuse fallaci di un uso “sproporzionato” della forza e di ritrarre i suoi avversari come vittime innocenti dell’“orco sionista”.

Ma per dare all’Idf libertà di azione occorre porre definitivamente fine all’attuale minaccia – o almeno, nel futuro immediato – è necessaria una copertura diplomatica.

È qui che Israele per decenni è stato negligente nell’assolvere i propri doveri diplomatici – sia quantitativamente (in termini di risorse allocate) sia qualitativamente (in termini di obiettivi definiti).

Per quanto concerne il primo punto, Israele è stato terribilmente parsimonioso nelle risorse che ha assegnato alla diplomazia strategica – se quel concetto era rilevante nella pianificazione strategica del paese. Israele ha destinato risorse letteralmente irrisorie  per sostenere la propria causa sulla scena internazionale e per minare quella dei suoi detrattori/avversari.

Come ho ripetutamente sottolineato, se Israele assegnasse un mero 1 per cento del bilancio statale a una strategica offensiva diplomatica pubblica, questo renderebbe ben oltre un miliardo di dollari disponibili per questo scopo.

In effetti, a meno che non si sia convinti che la menzogna e l’inganno sono preordinati per prevalere sulla verità e la giustizia, sono sicuro che anche gli scettici ammetterebbero che con oltre un miliardo di dollari, Israele potrebbe cambiare molte menti e conquistare molti cuori.

È questo, dunque, il primo passo per reprimere la violenza a Gaza.

Contesto generale e non sforzo specifico

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto (qualitativo), l’obiettivo principale dello sforzo diplomatico di Israele non deve essere quello di spiegare/giustificare eventi specifici ex post – dopo che si sono verificati. Piuttosto, esso deve sforzarsi di ridefinire ex ante, il contesto generale in cui tali eventi specifici sono percepiti e interpretati.

Questa distinzione è cruciale – perché lo stesso evento può essere interpretato in modi molti diversi a seconda del contesto in cui si osserva. Dopo tutto, se Israele viene ritratto in modo convincente come una democrazia solitaria, che si sforza coraggiosamente di mantenere i valori occidentali in un mare circostante di tirannia e teocrazia, le sue azioni hanno molte più probabilità di ottenere l’approvazione rispetto a quante ne avrebbe se si lasciasse presentare come un crudele e avaro colosso, che calpesta i diritti degli indigenti abitanti autoctoni. Allo stesso modo, i palestinesi  hanno molte meno probabilità di ricevere solidarietà internazionale se vengono – accuratamente – dipinti non come le vittime di un brutale intruso coloniale, ma come parte di una crudele società retrograda, incline nient’altro che allo sterminio – o quantomeno alla sottomissione – dell’“Altro”.

È difficile enfatizzare l’importanza pratica di questo. Se Israele non riuscirà a trasformare il contesto in cui gli eventi vengono percepiti – come l’avere a che fare con gli scagnozzi omicidi a bordo della Mavi Marmara o le folle assassine che si ammassano ai confini –, non sarà mai in grado di fornire al suo esercito l’opportunità di trovare una soluzione strategica permanente alle minacce che la nazione deve affrontare.

Martin Sherman è il fondatore e direttore esecutivo dell’Israel Institute for Strategic Studies.

Traduzione in italiano di Angelita La Spada

Qui l’articolo originale in lingua inglese

 

 

 

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