Interviste

Benny Morris: Alla scuola della realtà | INTERVISTA ESCLUSIVA

Benny Morris è uno dei maggiori esperti del conflitto arabo-Israeliano. Nato nel 1948, professore di storia al dipartimento di studi mediorientali all’università di Ben Gurion nel Negev, ha scritto libri fondamentali che nessuno studioso serio o ricercatore che voglia capire qualcosa di quello che è il più problematico e duraturo conflitto storico a livello planetario, può esimersi dal leggere. Tra di essi Esilio, Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Vittime, Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2000, La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli stati arabi 1947-1949.
Il suo sguardo sulla storia è quello lucido e implacabile di un realista impenitente, il quale analizza e protocolla i fatti ad occhi completamente asciutti.
Ci siamo incontrati a Gerusalemme, nel quartiere di Rehavia, in una luminosa giornata di fine giugno.

Quando hai cominciato a scrivere sul conflitto arabo-israeliano sei stato accolto a sinistra come uno studioso che stava decostruendo la narrativa egemone sulla Guerra di Indipendenza. Successivamente, i tuoi ammiratori ti hanno attaccato per quello che hanno considerato un mutamento di prospettiva storica. Questo mutamento c’è effettivamente stato?
Non ho mai mutato la mia prospettiva storica. Ho sempre scritto quello che mi dicevano i documenti e la prospettiva non è cambiata. Se  guardi il mio primo libro sui rifugiati (Esilo. Israele e l’esodo palestinese, 1947-1949), le conclusioni sono esattamente uguali a quelle della seconda versione pubblicata sedici anni dopo. Quello che è cambiato è stata la mia valutazione sulla volontà palestinese di fare la pace con Israele. Negli anni Novanta ero cautamente speranzoso che i palestinesi avessero cambiato la loro posizione e fossero pronti a fare la pace. Si rivelò che non lo erano. Quando rigettarono i compromessi americani e israeliani nel 2000, questo episodio mutò la mia prospettiva. Questa è la ragione per cui molte persone si arrabbiarono con me, perché dissi che la pace non c’è non per colpa degli israeliani ma per colpa dei palestinesi.

Nel 1922, Mussa Kazim al Husseini, il capo dell’Esecutivo Arabo-Palestinese a proposito degli arabi e degli ebrei disse, “La natura non permette uno spirito di cooperazione tra due popoli così diversi”. Dopo novantaquattro anni sembra che le sue parole siano ancora molto attuali. Sei d’accordo con lui?
Sì, me sembra che vedesse le cose in modo corretto. Non credo che gli ebrei e gli arabi possano vivere bene in uno stato in cui condividano il potere. Direi che le cose sono peggiorate, che i quasi cento anni aggiuntivi di animosità e violenza li hanno resi ancora meno disponibili a fidarsi gli uni degli altri di quanto lo fossero precedentemente. C’è stato il terrorismo, la ripresa dell’insorgenza araba, l’avvicinamento dei palestinesi al fondamentalismo. Tutto ciò ha reso ancora più improbabile che la pace possa essere raggiunta.

Dalla tua ricerca sembra che tu consideri fin da principio il rifiuto arabo come il principale ostacolo per una risoluzione del conflitto. E’ così?
Dal mio punto di vista il rifiuto arabo non è cambiato. Hanno detto di no al compromesso avanzato dagli inglesi negli anni Trenta, hanno detto di no al piano di spartizione delle Nazioni Unite il quale esprimeva la volontà della comunità internazionale, hanno detto di no nel 2000 con Arafat a Camp David e hanno detto un’altra volta no con Abu Mazen come loro leader al compromesso Olmert nel 2008. Nel frattempo Hamas è diventato molto più forte e si oppone a qualsiasi tipo di compromesso territoriale. Non vedo nessuna chance di compromesso all’orizzonte.

Vorrei parlare dell’atteggiamento dei leader sionisti prima e durante la Guerra di Indipendenza. C’è una vexata quaestio relativa alla questione della volontà di trasferire la popolazione araba prima e durante la guerra. Ci sono coloro i quali sostengono che fosse il prodotto di una premeditazione arrivando all’estremo di accusare i capi sionisti di mentalità genocida, e quelli come te secondo i quali il trasferimento fu più la conseguenza della minaccia araba nei confronti della presenza ebraica. Cosa mi puoi dire in proposito?
Prima di tutto la questione non ha nulla a che vedere con il genocidio o con una mentalità genocida. Nel peggiore dei casi alcuni leaders sionisti pensarono al trasferimento e certo non nei termini di massacri o di omicidi di massa e in fatti nulla del genere ha avuto luogo. Nel 1930, mentre l’antisemitismo aumentava in Europa c’era la necessità di un rifugio sicuro per gli ebrei. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra  non volevano prenderli. Il desiderio degli ebrei era di venire in Palestina dove la sovranità ebraica era esistita per secoli e alcuni leaders tra cui Ben Gurion e  Chaim Weizmann ragionarono sul trasferimento di una parte della popolazione araba o di tutta la popolazione araba dall’area che sarebbe dovuta diventare lo stato ebraico. Ora, nel 1937, la Commissione Peel propose agli arabi una spartizione con la quale gli ebrei avrebbero acquisito il 17% della Palestina e gli arabi qualcosa come il 70%. Gli ebrei pensarono che era solo giusto, se dovevano prendere il 17%, che perlomeno fosse privo di arabi in modo da consentirgli di avere lo spazio sufficiente per assorbire gli ebrei perseguitati in arrivo dalla Germania. Questo è ciò che anche la commissione Peel ritenne giusto. Consigliò il trasferimento come prerequisito che accompagnava la soluzione dei due stati.

Alcuni ebrei respinsero l’idea del trasferimento in quanto pensavano che ci fosse qualcosa di immorale nell’idea di espellere parte della popolazione nativa, ma altri pensarono che la moralità di salvare centinaia di migliaia di vite ebraiche sopravanzasse l’immoralità di buttare fuori alcune centinaia di migliaia di arabi, duecentoventicinquemila arabi, dall’area che doveva diventare lo stato ebraico. Non dovevano andare da un’altra parte, sarebbero andati a vivere insieme alla loro gente e sarebbero stati compensati. Questa era l’idea, è ciò che consigliava la Commissione Peel ed era avallato da persone come Ben Gurion e Weizmann. Il governatorato britannico avallò l’idea ma poi la rinnegò, e nel 1949 consiglio che tutta la Palestina venisse messa sostanzialmente sotto sovranità araba.

Il trasferimento ebbe luogo nel 1947, 48 e 49, come conseguenza della Guerra. Gli arabi della Palestina e successivamente quelli degli stati circostanti attaccarono gli ebrei e l’emergente stato ebraico. Fu una guerra civile per la prima metà, durante la quale la popolazione era mischiata. L’unico modo di vincere per gli arabi era quello di espellere gli ebrei dalle zone che dovevano diventare arabe e per gli ebrei di espellere gli arabi dalle zone che dovevano diventare ebraiche. Gli ebrei furono più efficienti ed essenzialmente cacciarono gli arabi. Molti di loro fuggirono come conseguenza di ciò e gli ebrei fecero in modo che non tornassero. Alcuni vennero espulsi, alcuni vennero consigliati o venne ordinato loro dai loro capi di andarsene pensando che sarebbero tornati una volta che gli arabi avessero vinto la guerra. Non accadde e non tornarono.

Alcuni storici, diversamente da me, non pensano che quando Ben Gurion e  Chaim Weizmann parlassero di trasferimento negli anni Trenta fossero realmente intenzionati a portarlo avanti. Al contrario, io ritengo che considerassero seriamente la cosa ma che le autorità britanniche non volessero implementarla e gli ebrei, negli anni Trenta, non fossero in grado di farlo da soli, ma pensarono seriamente alla questione.

Ben Gurion

Ben Gurion

Nel novembre del 1947 quando venne proposta una partizione del paese ci sarebbero dovuti essere quattrocentomila arabi nello stato ebraico e appena più di cinquecentomila ebrei, e i leaders sionisti, tra cui Ben Gurion e Weizmann, accettarono la cosa, la presenza di una larga minoranza araba nello stato ebraico. Si potrebbe dire che non fossero sinceri, che non lo intendessero realmente, ma dissero di sì. Gli arabi dissero di no e iniziarono a sparare.

Quando ho intervistato lo studioso e politologo tedesco Matthias Kuntzel l’inverno scorso, ha sottolineato che già durante gli anni Trenta I Fratelli Musulmani e Haji Amin al Husseini avessero islamizzato la guerra contro il sionismo e gli ebrei. Sei d’accordo con lui che le radici più robuste del conflitto sono  quelle religiose?
Non del tutto. Il conflitto accorpa elementi politici e di lotta nazionalista tra le due parti e anche elementi di conflitto religioso. In tempi diversi uno dei due prevale, ma certamente fin dall’inizio ci fu un largo elemento religioso nell’antagonismo arabo contro il sionismo e aumentò con Haji al Husseini. Era un ecclesiastico e capiva molto bene che per mobilizzare le masse arabe bisognava usare la religione, non la politica. All’epoca le masse non sapevano cosa fosse il nazionalismo ma comprendevano di cosa si trattava quando si parlava di Allah e dei luoghi santi. Al Husseini disse che gli ebrei volevano impossessarsi del Monte del Tempio, che volevano distruggere le moschee e questo venne accettato dalle masse arabe e li portò ad attacchi violenti contro la presenza ebraica e lo stato ebraico nascente. Nell’Islam c’è un profondo antagonismo nei confronti dell’ebraismo, ed è ancorato nel Corano, in quanto il giudaismo era una religione rivale quando Maometto iniziò a predicare e infatti distrusse alcune tribù ebree. La religione è ancora la base per il continuo antagonismo musulmano contro gli ebrei e i cristiani e una giustificazione per il jihad.

Oggi è abituale definire la presenza israeliana nella West Bank, “occupazione”, con tutto ciò che questa definizione comporta, tuttavia questa definizione è altamente controversa e apertamente contestata da Israele. In realtà i territori sono disputati. Qual è la tua posizione sulla questione?
I territori sono sicuramente disputati, ma c’è anche una semi occupazione. Perché semi-occupazione? Perché alcune aree nella West Bank, specialmente quelle con una larga popolazione araba in qualche modo sono governate dall’Autorità Palestinese ma sono anche circondate da posti di blocco israeliani e contingenti militari, quindi c’è una specie di occupazione. Così, se i palestinesi vogliono andare in Giordania o volare negli Stati Uniti devono ottenere un permesso israeliano, se vogliono importare qualcosa le importazioni devono arrivare in Israele, se vogliono esportare qualcosa, anche in questo caso, ciò che viene esportato deve andare in Israele, se vogliono costruire in alcune zone devono ottenere dei permessi israeliani. Quindi è una semi-occupazione, è una occupazione inusuale. Israele non è lì ma controlla l’area circostante. La stessa cosa vale per la Striscia di Gaza. E’ completamente sotto il controllo di Hamas, ma Israele controlla lo spazio aereo, la costa marittima e alcune delle uscite dalla Striscia mentre l’Egitto controlla un’altra uscita al sud. Hamas governa all’interno, mette la gente in prigione, uccide gli oppositori, impone la legge religiosa, questo è vero, governano in qualche modo, sono sovrani in qualche modo, ma non completamente perché Israele li circonda e gli fornisce acqua ed elettricità. Fondamentalmente vivono prendendo da Israele.

In One state two states (n.d.r non tradotto in italiano) liquidi come completamente irrealistica l’idea di uno stato binazionale e scrivi che “L’idea dei due stati resta l’unica base morale e politica sensata per una soluzione che offra un minimo di giustizia e tracci una possibilità di pace per entrambi i popoli”. Fino a che punto i palestinesi desiderano realmente questa soluzione?
Non credo che la vogliano. Come hanno fatto costantemente nel passato, anche oggi non vogliono una soluzione. Vogliono tutta la Palestina. Credono che gli appartenga in termini di giustizia. Dividere la terra con Israele, il quale ha il 78%, lo considerano completamente ingiusto e non sono disposti ad accettarlo. Fatah, il cosiddetto movimento secolare, finge di volere una soluzione binazionale, Hamas la rifiuta apertamente, Abu Mazen ondeggia qua e là, non è d’accordo su uno stato ebraico affianco a uno stato palestinese ma dice di sì, tuttavia, quando si arriva a negoziare certamente non firmerà nessun accordo, come non lo ha fatto Arafat e come lo stesso Abu Mazen non lo ha fatto nel 2008, quando gli venne offerto.

Diciamo che alla fine ci sia un accordo tra il governo israeliano e l’Autorità Palestinese. Quanto potrebbe essere preso seriamente un eventuale accordo a fronte della forte opposizione di Hamas il quale governa un milione e cinquecentomila arabi a Gaza?
Hamas non solo governa un milione e cinquecentomila arabi a Gaza ma ha anche una profonda influenza nella West Bank e nei campi rifugiati in Libano, Siria e Giordania. Hamas gode di un sostegno molto forte. Non credo che nessun leader dell’Autorità Palestinese, Abbas o il suo successore, firmerà mai un accordo perché sarebbe un mandato di morte. Hamas lo ucciderebbe, Hamas sovvertirebbe l’accordo se dovesse firmarlo, ma non credo lo firmerà. Anche se lo facesse, come suggerisci, Hamas si rivolterebbe e molti palestinesi si inchinerebbero a Hamas perché sono stati educati e inculcati con l’idea che gli israeliani sono ladri e che la loro presenza in Israele sia illegittima, quindi non aderirebbero. Pensano che la storia sia dalla loro parte. Questo è un problema, poichè la storia per loro sono gli stati arabi circostanti, il  potere economico arabo, il potere politico arabo, il mondo musulmano, ecc.

Abu Mazen

Abu Mazen

Gli ebrei sono poco più di sei milioni in questo piccolo angolo del mondo dove ci sono centinaia di milioni di arabi, quindi gli arabi guardano alla cosa obbiettivamente e dicono, non può durare, si tratta di una anomalia. Quello che dobbiamo fare è non firmare alcun accordo ed eventualmente la demografia, il potere economico, il potere politico, decideranno il risultato e finirà come con i crociati che vennero cacciati nel dodicesimo secolo.

Sei d’accordo che la narrativa imperante secondo la quale i palestinesi sono vittime e gli ebrei sfruttatori e persecutori è una riformulazione del persistente paradigma antisemita?
E’ un insieme di cose. Guarda, entrambi i popoli sono vittime. Gli ebrei sono vittime di duemila anni di persecuzione cristiana e di persecuzione musulmana e sono vittime degli attacchi arabi e del terrorismo palestinese. Gli arabi sono vittime nel senso che Israele ne ha cacciato una larga proporzione dalle loro case, ha occupato la terra e li ha fatti vivere sotto una forma di semi-occupazione dal 1967.

Gli ebrei al momento in Medioriente sono i più forti, ma se guardi la mappa e la realtà demografica, la realtà politica, gli ebrei, effettivamente sono gli sfavoriti in termini storici. Siamo più forti dei palestinesi ma il mondo arabo, che è attualmente frammentato, è potenzialmente molto più forte di noi.

Ho intitolato uno dei miei libri Vittime perché entrambi le parti sono vittime e affermano di esserlo, ma se si guarda alla cosa in una prospettiva storica gli ebrei sono le vittime maggiori anche se, in un senso immediato, anche i palestinesi sono vittime e hanno diritto di sentirsi tali. Tuttavia, la loro vittimizzazione è in larga misura autoprodotta perché gli venne offerto uno stato dalla Commissione Peel, dalle Nazioni Unite, da Israele e hanno sempre detto di no. Se avessero accettato non sarebbero vittime, avrebbero un loro stato, vero, non tutta la Palestina, ma avrebbero avuto una larga porzione o, come gli venne offerta successivamente, una porzione ridotta, ma in ogni caso uno stato. Sono vittime in parte perché hanno continuato a dire no.

In Occidente il pregiudizio contro Israele è molto forte. Molti lo considerano una vestigia del colonialismo e questa definizione si è venduta molto bene dagli anni Sessanta ad oggi. Cosa hai da dire a questo proposito?
Il paradigma coloniale si riferisce a una madre patria imperialista che manda i propri figli in altre terre, le conquista e quindi sfrutta i nativi e le risorse naturali. Il sionismo fu il progetto di un popolo perseguitato in Europa, gli ebrei, che avevano bisogno di una patria e vennero qui e comprarono appezzamenti di terreno. Non conquistarono nulla, comprarono. Non erano agenti di un impero, pensavano di essere agenti al servizio del proprio popolo. E’ vero che l’Inghilterra, da principio li sostenne per un po’ e poi gli tolse il proprio appoggio ed è altrettanto vero che gli Stati Uniti li appoggiarono da un certo momento ma non furono mai agenti degli Stati Uniti come si può vedere dalla rivalità Obama/Netanyahu. E’ vero che in un certo qual modo Israele protegge alcuni interessi americani e interessi occidentali nella zona in quanto condividiamo gli stessi valori e così via. C’è qualcosa di coloniale nel sionismo nel senso che si trattò di un movimento europeo e si tratta dell’Europa che si muove verso una terra del terzo mondo e che gradualmente si estende su di essa. In questo senso c’è un elemento coloniale. Il sionismo ha creato quelli che chiamiamo moshavots (n.d.r. comunità agricola cooperativa) e gli insediamenti che si sono espansi progressivamente, da pochi a sempre di più. Quindi, ancora una volta, in tale ottica si tratta di un movimento coloniale, ma in nessun modo può essere paragonato al colonialismo occidentale.

Sei un realista al cubo. In quello che scrivi e dici non c’è mai un punto morbido. E’ troppo pessimista vedere il futuro di Israele come quello di una perenne fortezza nel Medioriente, o è invece il modo più valido di guardare in faccia la realtà?
Credo che la realtà nel Medioriente, e ancora di più dopo il cosiddetto risveglio arabo, significa che Israele, per potere sopravvivere qui, e non sono sicuro che riuscirà a farlo, l’impero romano non è sopravvissuto, nessuno stato sopravvive per sempre, necessiti di essere una fortezza, necessiti di essere forte. Deve respingere gli attacchi arabi e l’antagonismo arabo e la malevolenza occidentale, che sta crescendo, come dici tu. Israele potrebbe comportarsi meglio in un certo senso, potrebbe fermare gli insediamenti, non ho mai appoggiato l’impresa degli insediamenti, mostrare all’Occidente di essere sincero nella sua volontà di pace. Ci sono azioni che il governo potrebbe fare. Per esempio, costruire un porto a Gaza che potrebbe essere monitorato internazionalmente e da Israele. Non sto dicendo che possa essere fatto, non sto dicendo che potrebbe funzionare. Il vero problema basilare non sono realmente i gesti di Israele o la politica ma è il rifiuto arabo.

In questo modo torniamo al punto principale.
Sì, è così, ma è come stanno le cose.

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