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Da Ronald a Donald: la rabbia dell’aquila e l’ingenuità russa

Gli Stati Uniti che si affacciavano agli anni ’80 erano una potenza considerata (frettolosamente) al tramonto, provata da una lunga recessione, dall’umiliazione vietnamita, dal Watergate, dal disastro della “Eagle Claw” e incapace di fronteggiare e contenere il nuovo dinamismo sovietico, per la prima volta proiettato su teatri lontani dal confine jaltiano (Angola, Mozambico, Ogaden, Afghanistan).

L’impressione, sempre più diffusa ed accettata, era insomma che il baricentro del potere mondiale si stesse spostando inesorabilmente e definitivamente ad Est e che la parabola storica della superpotenza americana fosse nella sua fase conclusiva. Attraverso una retorica muscolare e opponendosi con fermezza al “malaise speech” carteriano e alla mentalità declinista di quegli anni, Ronald Reagan riuscì tuttavia a stimolare il mai sopito spirito revanscista della nazione, guadagnando la Casa Bianca e confermandosi con larghissima maggioranza quattro anni dopo. “Make America Great Again”, fu lo slogan dell’ex attore nella sfida contro Jimmy Carter, lo stesso slogan ripreso quasi 40 anni dopo da Donadl Trump.

Come Reagan, il tycoon newyorkese è infatti stato capace di presentarsi come la via di uscita da un tunnel troppo lungo, nel quale gli USA erano stati confinati anche dal muscolarismo putiniano e dall’invadenza russa; Mosca ha però sottovalutato nuovamente, irresponsabilmente e ingenuamente la forza dell’avversario, causandone la risposta. Le iniziative in Siria e Corea ne sono la dimostrazione, come ieri lo furono il rilancio nucleare di Washington, i blitz in Libia o Grenada o l’appoggio alla guerriglia afghana

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