Storia di Israele e dell’Ebraismo

Ebrei italiani e Risorgimento

La storia dell’ emancipazione degli ebrei italiani è stata ampiamente studiata ed approfondita, a partire dai testi fondamentali di E. Capuzzo, F. Della Peruta, S. Foà, V. De Cesaris ed altri, per cui adesso ci è chiaro che il Risorgimento fu un’ occasione straordinaria per le comunità israelitiche presenti sulla Penisola di contribuire fattivamente al fenomeno rivoluzionario con due obiettivi: rivendicare la piena “italianità”; dimostrare che la loro diversa fede religiosa poteva benissimo fondersi con quella nuova religione civile del culto della Nazione diffusa innanzitutto da Mazzini.

Il successo complessivo della partecipazione degli ebrei alle vicende del Risorgimento fu, per così dire, consacrato dalla Legge sull’Emancipazione che Vittorio Emanuele II proclamò il 29 marzo 1848 all’interno del Regno di Sardegna e che successivamente estese a tutto il Regno d’ Italia, dando inizio così ad una storia nazionale che durante tutto l’ Ottocento andò quasi in controtendenza rispetto agli altri Stati europei, come la Francia e la Germania, dove nascevano sentimenti sempre più marcatamente antisemiti, dei quali il processo al capitano Dreyfus fu la manifestazione più emblematica ma non certo la sola.

La nazione Italia nasceva nel segno di una sovranità aperta – oggi diremmo “inclusiva”-, mentre altrove il vento del nazionalismo su base etnica iniziava a soffiare e ad alimentare il mito della razza pura, tra un revival di culti pagani tardogermanici e la diffusione del neoromanticismo di stampo wagneriano che, una volta contaminati dalle teorie socialdarwiniste ed eugenetiste, sappiamo bene a quali esiti tragici condussero. Questo ci spiega perché, mentre nella Germania degli anni Venti e Trenta del XX secolo l’ antisemitismo propagandato dai circoli razzisti e poi dal partito nazista di Hitler ed Himmler trovarono un fertile terreno di coltura, visto che era stato arato e preparato da quasi un secolo; nell’ Italia fascista, al contrario, non fu facile convincere gli italiani della “diversità razziale” dei loro compatrioti israeliti, i quali si erano conquistati la cittadinanza italiana sui campi di battaglia e non a chiacchiere, a partire dal Risorgimento per poi continuare durante tutta la Grande guerra.

Lasciamo da parte il discorso delle leggi razziali del 1938 che ci portebbe ben oltre l’ argomento presente, ma è giusto ribadire questa considerazione: con il Risorgimento si stabilì più che una semplice alleanza tra gli ebrei italiani e i patrioti laici e/o cristiani; forse il termine “fratellanza” potrebbe essere più indicato, se lo si ripulisce da ogni connotazione retorica e moralistica. Come ha spiegato benissimo Ester Capuzzo in Gli ebrei italiani dal Risorgimento alla scelta sionista, ci fu tra gli ebrei e il massimo esponente della filosofia risorgimentale, Giuseppe Mazzini, un vero e proprio scambio comunicativo in termini di valori: se i primi videro nella sua idea di Nazione la possibilità di riaffermare il loro bisogno mai sopito di una Patria in cui identificarsi e in cui finalmente trovare non solo le condizioni materali della sussistenza all’ interno dei ghetti – e quindi segnati nella diversità -, ma il pieno riconoscimento dei diritti civili e politici grazie alla nuova cittadinanza italiana-nazionale; Mazzini, da parte sua, si ispirò profondamente ai testi biblici, proponendo una lettura “risorgimentale” della Bibbia, sintetizzata nel suo celebre slogan di Dio e Popolo.




L’ idea mazziniana, dunque, che un popolo sia tale soltanto se trova la sua naturale dimora nello Stato-nazione e che questo sia non soltanto una giusta aspirazione di carattere politico, ma anche un tragitto segnato – potremmo dire “destinato”- come lo fu il cammino degli ebrei verso la Terra promessa, che fu guidato da un profeta e soprattutto indicato dalla volontà divina, ha evidentemente una chiara matrice biblica; che si capisce benissimo quando Mazzini, nella lettera Alla gioventù italiana, scrive : “Siate i Mosé che guidino la Nazione nella Terra promessa”.

Con quanto entusiasmo furono recepiti questi ed altri messaggi in ambienti israeliti, lo si capisce da quell’ anello fatto di sostegno materiale e di affetto che gli ebrei italiani costruirono intorno al Mazzini esule a Londra e che poi lo seguì a Roma durante l’ esperienza della Repubblica nel ’49 e non lo abbandonò mai, fino agli ultimi giorni della sua vita che egli trascorse, com’ è noto, a Pisa nella casa dell’amico ebreo Nathan Rosselli.

Si stabilisce così un legame che andò poi a consolidarsi nel corso della storia italiana e si ruppe solo con l’ avvento del fascismo. Il rapporto tra il mazzianesimo e l’ ebraismo non fu dunque occasionale e meramente legato all’ opportunità politica: fu in verità di natura profonda, etica e, per certi versi, religiosa. E ciò era reso possibile proprio dall’ idea mazziniana di nazione che, come abbiamo già detto, non era sottoposta a mire di tipo nazionalistico e suprematistico; bensì si fondava su princìpi umanitari e libertari che permettevano anche ai “diversamente” religiosi di sentirsi italiani e patrioti a tutti gli effetti.

Non a caso è stato qui evocato un cognome, Rosselli, che successivamente, grazie ai fratelli Carlo e Nello, fondatori di Giustizia e Libertà, assassinati a Parigi dai sicari dell’ estrema destra, diventerà un emblema della lotta contro il totalitarismo e l’ antisemitismo. E sicuramente la difusione del pensiero di Mazzini tra le comunità ebraiche italiane portò in seguito frutti molto importanti sul piano civile e culturale, che probabilmente meriterebbero di essere appronditi ( tra i nomi più significativi in questo senso, oltre ai Rosselli, bisognerebbe ricordare Felice Momigliano, Alessandro Levi, Rodolfo Mondolfo, Raffaele Vita Foa).

C’ è poi un’ altra questione che si inserisce in questo gioco di rimandi e di reciproci riconoscimenti tra Mazzini, i mazziniani e gli ebrei italiani che sposarono il suo credo e le sue idee politiche. Innanzitutto – diciamolo apertamente -il Risorgimento italiano permise a quegli uomini che da secoli erano stati confinati nei ghetti e privati dei diritti fondamentali, di armarsi e di combattere per un ideale che, come abbiamo precisato, era sì la loro emancipazione ma anche quello della nazione, in quanto conditio sine qua non. Inoltre, l’ idea stessa che fosse possibile concepire un’ Italia unita e indipendente (per cui valeva la pena di combattere e se necessario di morire), aprì nei patrioti ebrei anche una prospettiva più allargata e assolutamente innovativa. Potrebbe sembrare una contraddizione, ma in realtà non lo fu: l’ idea che fosse possibile trovare piena cittadinanza in Italia e riconoscere questa come patria, rese concreta la speranza che un altro Risorgimento, anch’ esso fondato su Dio e Popolo, avesse luogo a Sion, nella terra dei padri, in Eretz Israèl.

Se l’ idea di nazione fu depurata da ogni connotazione nazionalistica su base etnica, come appunto avvenne grazie alla filosofia politica di Mazzini, non ci si poteva più limitare a identificarla mediante criteri geografici o semplicemente linguistici e antropologici; di conseguenza lo spazio nazionale diventava un elemento ideale e necessariamente aperto, come venne chiaramente indicato nel testo della costituzione della Repubblica romana del 1849 in cui, come ci ricorda E. Capuzzo, venne sancito “oltre al riconoscimento fondamentale di quella italiana, anche il rispetto per ogni nazionalità”. Ma non si deve fraintendere questo concetto: gli ideali mazziniani non derivano meccanicamente da quelli illuministici improntati ad un cosmopolitismo che nella sostanza annullava le differenze e le identità di tipo collettivo; il nazionalismo aperto di Mazzini è di tipo internazionalista, e proviene più dalla tradizione romantica e cristiana che non da quella razionalistica-voltairiana di origine francese. E qui mi sia concesso di aprire solo una brevissima parentesi in forma di domanda: come mai la famosa tollerenza di Voltaire arrivava ai protestanti, ma escludeva decisamente gli ebrei?

Per capire come la prospettiva risorgimentale venisse interpretata e allargata in una dimensione non soltanto italiana, bensì di Risorgimento ebraico, basterebbe leggere le lettere di Giacomo Venezian, giovane medico triestino morto per la difesa della Repubblica romana, il quale evocava con perfetto stile mazziniano: “la forma della nazionalità (opera di Dio) anche per il futuro d’ Israele”.

Siamo qui a contatto con quello zeitgeist tipicamente ottocentesco e profondamente romantico, che si declina già nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo e poi trova espressione in tutta la letteratura patriottico-risorgimentale da Silvio Pellico a Ippolito Nievo, mentre viene meravigliosamente celebrato in musica con le opere di Giuseppe Verdi.

Di questa sentimento nazionale, Giuseppe Mazzini fu senza dubbio uno dei massimi interpreti e comunicatori, per usare un termine dei nostri giorni. E non è certo un caso che tra i suoi più vicini allievi e collaboratori ci fossero degli ebrei; come Bendetto Musolino, patriota calabrese e fondatore dei Figlioli della Giovane Italia, anch’ egli combattente per Roma, autore di Gerusalemme e il popolo ebreo, in cui iniziava a ragionare sulla fondazione di un Principato ebraico in Palestina. Nel 1851 Musolino arrivò poi a formulare un vero e proprio progetto politico, che per quell’ epoca poteva definirsi futuristico anche se con scarsissime possibilità di essere implementato, in cui prevedeva il mantenimento della Palestina all’ interno dell’ Impero Ottomano ma con una chiara identità ebraica; garante dell’ operazione sarebbe stata l’ Inghilterra, in quanto antagonista dell’ Impero russo in cui si stavano manifestando forme di antisemitismo. La guerra di Crimea, di lì a breve, e il successivo trattato di Parigi misero definitivamente fuori gioco il progetto musoliniano.

Un altro testo che pochi anni dopo, precisamente nel 1862, stabiliva un nesso tra il Risorgimento italiano e la rinascita ebraica nella terra di Sion è Roma e Gerusalemme. L’ ultima questione nazionale, di Moses Hess, un filosofo ebreo tedesco che prevedeva già allora un futuro incerto (sic!) per gli ebrei nel nascente Reich prussiano. Ispirandosi chiaramente alla visione internazionalista di Mazzini, Hess scriveva : “ Con la liberazione della città eterna presso il Tevere, comincia pure quella della città eterna sul Moriah; con il risorgimento dell’ Italia, si inizia pure la rinascita della Giudea.” Implicito, ovviamente, il parallelo tra la Roma, la cui liberazione era ancora impedita da Napoleone III, e la Gerusalemme sottoposta alla dominazione turca.

Non si può fare a meno, a questo punto, di indicare, rimandando agli studi approfonditi (per esempio, L. Compagna, Theodor Herzl. Il Mazzini d’ Israele), la questione del nesso terorico ed ideologico tra il mazzianesimo e il sionismo, di cui Theodor Herzl fu il fondatore ma il calabrese Musolino senza dubbio resta un precursore. Il sionismo, che nasce nella seconda metà del XIX come reazione difensiva al diffondersi in Europa dei nazionalismi su base etnica e chiaramente antisemita, fa sua la lezione di quello che gli amici ebrei Nathan e Rosselli chiamavano affettuosamente il “grande rabbino”, Giuseppe Mazzini. E’ così che anche l’ idea di un ritorno alla terra dei padri, ad Eretz Israèl, non viene concepita con lo spirito nazionalistico ispirato ad una volontà di potenza o ad un fondamentalismo religioso; bensì agli ideali umanitari e universalistici che erano tipici del pensiero mazziniano, e che verranno pienamente recepiti in Der Judenstaat di Herzl.

Se, dunque, il Risorgimento italiano era il modello e la fonte di ispirazione; il Dio e popolo mazziniano diventò il trait d’ union dei patrioti italiani con i patrioti ebrei; e idealmente dei futuri coloni dei kibbutzim nella Palestina mandataria, nonché dei combattenti nella guerra del 1948 per la difesa dello Stato d’ Israele.

Il dibattito teorico

Esaminato a fondo da F. Della Peruta in Gli ebrei nel Risorgimento fra interdizioni ed emancipazione, il dibattito teorico sulla questione dell’ emancipazione si mostra nella sua complessità ed accesa articolazione, di cui, in questa sede, vorrei soltanto sottolineare alcuni aspetti essenziali. E’ importante innanzitutto ricordare che l’ Italia, pur non avendo visto in passato la penetrazione di concetti come la limpieza de sangre, elaborato nella Spagna del XVI secolo con evidenti e gravissime implicazioni di tipo razziale, era diventata però ricettacolo di un filone antigiudaico ( sulla continuità o differenza tra antigiudaismo e antisemitismo c’ è tutta una vasta letteratura, tra cui mi limito a ricordare i saggi di A. Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’ emancipazione e di G. Miccoli, Antiebraismo e antisemitismo) che ovviamente trovava il suo centro di propagazione nella Chiesa romana e venne poi amplificato negli ambienti clerico-reazionari ostili al Risorgimento, al modernismo e, di conseguenza, anche agli ebrei che dell’ uno e dell’ altro erano visti come pericolosi sostenitori (su questo si veda G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Otto e Novecento).

Proprio per questo è nell’ ambito della cultura cattolica che il dibattito fu particolarmente articolato ed appassionato. L’ antiebraismo trovò i suoi più convinti sostenitori nel canonico piemontese Vincenzo Rossi, autore de Gli ebrei (1817), che suggeriva ai cristiani di non familiarizzare con i “discendenti di Giuda”; in padre Ferdiando Jabalot che nel 1825 pubblicò sul “Giornale ecclesiastico di Roma” una ferma condanna di tutti quelli che manifestavano “amore svisceratissimo” per gli ebrei; nel toscano Luigi Chiarini, professore di lingua ebraica e di ermeneutica biblica, che nella Théorie du judaisme definì il Talmud “ricettacolo di errori e di pregiudizi”; e persino in personaggi che contribuirono alla causa del Risorgimento, come il democratico Francesco Domenico Guerrazi, che nelle sue Note autobiografiche, scritte nel carcere di Portoferraio dove era recluso per aver svolto attività politica di ispirazione mazziniana, dichiarava apertamente di condividere i pregiudizi dei suoi concittadini di Livorno nei confronti della cospicua comunità ebraica livornese (“ Gli ebrei con Mosé, e dopo, presentano una vasta compagnia di masnadieri…”).





Dall’ altra parte, si segnala – sempre sulla scorta del saggio di F. Della Peruta – il formarsi di una corrente di pensiero, a partire dal 1830, i cui rappresentanti si schierarono per la completa emancipazione degli ebrei italiani: Pietro Regis, professore di teologia nell’ Università di Torino, Giuseppe Compagnoni autore di Saggio sugli ebrei e sui greci, e poi Giambattista Formentini, Giuseppe Maria Pujati, Giambattista Giovio, i quali, anche se con diverse sfumature e declinazioni, si espressero tutti a favore della concessione dei diritti civili e politici alla minoranza israelitica.

Ma soltanto nel 1843, con l’ avvento del neoguelfismo e del moderatismo liberale – che segnava una discontinuità con la tradizione insurrezionale mazziniana i cui limiti erano parsi assai evidenti – viene espressa, grazie al filosofo torinese Vincenzo Gioberti e al suo Primato, una presa di posizione di grande autorevolezza a favore dell’ emancipazione degli israeliti italiani, aprendo così una vera e propria breccia nella fortezza del cattolicesimo conservatore e dell’ antigiudaismo. Per il filosofo piemontese, bisognava pienamente integrare gli ebrei nel processo risorgimentale, proprio perché il nuovo concetto di nazione che stava prendendo forma aveva quei caratteri di universalità che lo rendevano valido per tutti i popoli (“Un secolo che biasima gli ergastoli non può approvare i ghetti”). Per Gioberti la causa degli ebrei doveva quindi essere considerata “giustissima” e “santa” ; ciò nonostante restava in lui un approccio basato sul principio della carità cristiana ma pur sempre di tipo conversionistico, che quindi prevedeva, proprio grazie alla concessione dei diritti, la possibilità di “ricondurre all’ ovile lo smarrito Israele”.

Altra personalità di spicco del cattolicesimo liberale che si mostrò particolarmente sensibile verso la questione ebraica, è Raffaello Lambruschini: pedagogista, agronomo nonché senatore del Regno, fu anche uno dei principali animatori del prestigioso Gabinetto Vieusseux a Firenze, dove conobbe Gino Capponi, Bettino Ricasoli, Niccolò Tommaseo. In degli articoli usciti inizialmente sul giornale “La patria” di Firenze nel 1847 e poi raccolti in Scritti politici e di istruzione pubblica, l’ intellettuale liberale di San Cerbone (presso Figline Valdarno aveva creato una scuola di agraria con metodologie avanzatissime per l ‘ epoca) poneva cattolici ed ebrei sullo stesso piano, secondo i dettami della “legge eterna del Vangelo”. A questi stessi princìpi cristiani, si richiamava Roberto

D’ Azeglio quando, il 23 dicembre 1847, scrisse a Carlo Alberto: “a pro degli infelici fratelli per cui durano ancora inesorabili rigori e le interdizioni a cui dannavali la barbarie della scorsa età, per la deplorevole inosservanza in cui rimase sino a questo giorno il più sublime fra i precetti che la carità di Dio impose all’ umana famiglia”.

Spostandosi nell’ ambiente veneziano di quegli stessi anni, bisogna necessariamnte ricordare l’ opera appassionata del cattolico dalmata Niccolò Tommaseo, che si collocò apertamente su posizioni filogiudaiche e di conseguenza favorevoli alla piena emancipazione degli ebrei italiani. Come ha rilevato E. Capuzzo, Tommaseo esaltava la loro “primogenitura” dei valori nazionali (e risorgimentali), che derivavano dallo stretto legame tra il popolo ebraico e la terra, come era chiaramente esplicitato nella Bibbia. Pertanto gli ebrei condividevano tre patrie: Israele, il paese dove erano nati e di cui serbavano il ricordo; l’ Italia, e il mondo in cui erano stati dispersi; ma questo non indeboliva il loro legame, anzi lo rafforzava rendendoli “compatrioti e fratelli” (N. Tommaseo, Diritti degli israeliti alla civile uguaglianza. Discorso).

Sul versante laico e repubblicano – per concludere questa breve rassegna -, gli scritti più significativi riguardo all’ emancipazione erano già arrivati nel 1835, in occasione della nota controversia tra il governo francese e il cantone svizzero di Basilea, che non aveva riconosciuto valido l’ acquisto fatto dai fratelli Wahl, ebrei francesi, di una proprietà nella campagna di quel cantone. Il primo ad intervenire in aspra polemica contro le autorità svizzere fu Mazzini, che nel novembre dello stesso anno, pubblicò due articoli sulla “Jeune Suisse” , dove smontava senza mezzi termini le argomentazioni antiebraiche. Mazzini richiamava i princìpi di tolleranza e di libertà, i valori assoluti, i diritti degli uomini: “Ma ciò di cui sentiamo il bisogno, è di alzare anche la nostra voce contro un’ eccezione tanto ingiusta quato retrogada, qual è quella con cui si perseguitano ancor oggi i seguaci della legge di Mosé; di protestare, in nome del progresso e delle nostre sante credenze umanitarie, contro ogni legge eccezionale, che viola il gran principio di tolleranza…”

Sempre in polemica contro la decisione dei magistrati di Basilea, si levò poi la voce del teorico del federalismo italiano, Carlo Cattaneo, che nel 1836 pubblicò un libro analizzando la questione sotto un profilo principalmente di natura economica. Il saggio, che si intitolava Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalle leggi civili agli israeliti, fu poi noto in tutta Europa col titolo sintetitico di Interdizioni israelitiche. Il federalista lombardo non si addentrava in questioni di carratere culturale o religioso, ma si limitava a spiegare le ragioni sociali ed economiche per cui gli ebrei si erano specializzati nelle attività di tipo commerciale e finanziario; sgombrando il campo da ogni pregiudizio circa le loro colpe teologiche e i loro presunti vizi morali, Cattaneo spiegò che le ricchezze degli ebrei erano solo il frutto delle interdizioni a cui erano stati sottoposti nel corso dei secoli. Ed auspicava il “generale pareggiamento degli israeliti”, come già era avvenuto in Francia ed in Inghilterra in nome della tolleranza e dei princìpi umanitari.

In conclusione, abbiamo precedentemente detto che il Primato del Gioberti avrebbe prodotto una sorta di breccia nelle mura del cattolicesimo conservatore e dell’ antigiudaismo; ebbene, circa trent’ anni dopo, quasi a ricambiare quel gesto, una breccia vera e propria fu aperta a Porta Pia dalle cannonate del IX Reggimento di artiglieria: il capitano che dette l’ ordine di aprire il fuoco era un giovane ebreo, si chiamava Giacomo Segre. Quel giorno, 20 settembre 1870, la città dei papi diventava finalmente la capitale del Regno e la storia del Risorgimento trovava il suo compimento.

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