Dal 7 ottobre 2023 la Striscia di Gaza è al centro di una delle più gravi crisi umanitarie della storia recente. La guerra che non sarebbe mai iniziata senza gli attacchi nel sud di Israele voluti dall’Iran, ha generato sofferenze immani, ma al tempo stesso ha mobilitato un flusso senza precedenti di aiuti internazionali. Dati ufficiali israeliani parlano di oltre due milioni di tonnellate di forniture entrate a Gaza, trasportate da quasi 100.000 camion provenienti da Israele, Egitto, Giordania e da numerosi Paesi terzi, oltre che da aviolanci e spedizioni marittime. Una mole di aiuti che, però, non trova riscontro nei rapporti delle Nazioni Unite. Secondo un’analisi condotta dal COGAT (Coordination of Government Activities in the Territories), vi è una discrepanza enorme: dal mese di maggio 2025, mentre l’ONU ha segnalato appena 3.553 camion entrati nella Striscia, i dati reali ne documentano circa 9.200. Una differenza di quasi 6.000 unità, pari a uno scarto di 2,5 volte. Non si tratta di un errore marginale, ma di una divergenza capace di influenzare profondamente il dibattito pubblico e le decisioni politiche a livello internazionale.
I dati mancanti
La ragione di questa discrepanza va ricercata nel metodo di raccolta delle Nazioni Unite. I loro report tengono conto soltanto degli aiuti gestiti dalle agenzie ONU stesse e da un ristretto numero di ONG partner, tralasciando un vasto insieme di forniture provenienti da Stati terzi, organizzazioni internazionali indipendenti, settore privato, missioni di aviolancio e centri di distribuzione gestiti da attori come gli Stati Uniti. Così, gran parte degli sforzi umanitari non appare nei documenti ONU, che vengono tuttavia presentati come fotografia completa e “indiscutibile” della situazione. Il COGAT, al contrario, pubblica regolarmente sul proprio sito web rapporti giornalieri che dettagliano ingressi, punti di passaggio e tipologie di beni. Dai dati risulta che, ad esempio, solo il 3 e il 4 agosto sono transitati a Gaza più di 470 camion carichi di aiuti, tra alimenti, carburante e forniture mediche, mentre centinaia di pacchi alimentari sono stati lanciati dall’alto da Paesi come Giordania, Emirati, Germania, Canada e Francia.
Un quadro distorto
La conseguenza più grave di questa selezione è la costruzione di un’immagine falsata. I rapporti ONU, diffusi dai principali media internazionali, trasmettono l’idea che Israele ostacoli l’ingresso degli aiuti o ne limiti la quantità. In realtà, il dato effettivo mostra che il problema non sta nell’apertura dei valichi o nei flussi di camion, ma piuttosto nella capacità di raccolta e distribuzione sul terreno da parte delle organizzazioni internazionali. A complicare la situazione si aggiungono il ruolo di Hamas, che in diverse occasioni ha deviato convogli o ostacolato la distribuzione, e le difficoltà logistiche delle agenzie umanitarie. Per loro gli aiuti sono un business milionario.
Cibo e acqua: numeri che smentiscono la crisi “totale”
Uno degli esempi più eclatanti riguarda l’acqua potabile. Gli standard ONU fissano a 7 litri al giorno il fabbisogno minimo pro capite. Secondo i dati raccolti da Israele, a Gaza Nord oggi l’approvvigionamento è di 38 litri per persona al giorno, mentre a Gaza Sud arriva a 44 litri. Una quantità ben superiore agli standard minimi, resa possibile grazie a condotte idriche israeliane e a un impianto di desalinizzazione alimentato dall’elettricità fornita da Israele stesso. Inoltre, nuove condotte finanziate dagli Emirati Arabi Uniti e coordinate con l’IDF sono in fase di costruzione per incrementare ulteriormente le risorse. Sul fronte alimentare, i numeri parlano da soli: dal 7 maggio la GHF ha distribuito oltre 2,1 milioni di pacchi, equivalenti a 130 milioni di pasti. A ciò si aggiungono i lanci aerei internazionali e le distribuzioni delle ONG. Nonostante questo, i rapporti ONU continuano a trasmettere l’immagine di una popolazione completamente priva di accesso al cibo, senza distinguere tra difficoltà reali e disponibilità effettiva delle risorse.
La responsabilità dell’ONU
Le discrepanze sollevano un interrogativo cruciale: perché le Nazioni Unite diffondono dati così incompleti, consapevoli che verranno interpretati come quadro ufficiale della crisi? La risposta, secondo il COGAT, risiede in una scelta metodologica e politica: includere solo una parte degli aiuti, lasciando fuori iniziative bilaterali, regionali o di attori non riconosciuti dall’ONU. Un approccio che, di fatto, produce una rappresentazione parziale e distorta della realtà. Il rischio è duplice. Da un lato, i media internazionali, basandosi su queste cifre, descrivono una situazione che non corrisponde al vero, amplificando accuse infondate contro Israele. Dall’altro, i decisori politici elaborano strategie e pressioni diplomatiche su basi statistiche incomplete, con ricadute dirette sui negoziati e sulla percezione globale del conflitto.
La guerra dei numeri
Da tempo sappiamo che il conflitto di Gaza non si combatte solo con le armi, ma anche con i numeri. E cosi’ le cifre diventano strumenti di propaganda, e il modo in cui vengono presentate ha un impatto strategico. Per lo Stato di Israele, mostrare la realtà degli aiuti equivale a difendere la propria immagine internazionale e respingere le false accuse di assedio. Per l’ONU, limitarsi a considerare solo i canali ufficiali significa difendere il proprio ruolo istituzionale, ma al prezzo di una verità mutilata ed è inaccettabile. Le accuse del COGAT mettono in luce un nodo cruciale: quando un’istituzione come l’ONU diffonde dati parziali, rischia di minare quel poco che ancora gli rimane di autorevolezza come fonte imparziale. Se l’organizzazione vuole mantenere il suo ruolo di garante e mediatore globale, deve offrire un quadro completo e verificabile della realtà, non selezionare solo ciò che rientra nei propri schemi burocratici. Ogni omissione alimenta sfiducia, ogni lacuna diventa un assist alle campagne di disinformazione di Hamas. E in un contesto come quello di Gaza, dove le vite umane dipendono anche dalla credibilità dei dati, l’errore non è tecnico ma politico e allo stesso tempo mediatico.