Israele e Medio Oriente

Gerusalemme riconosciuta: ecco perché siamo tutti vincitori (palestinesi compresi)

Preambolo 

La copertura mediatica data alla questione di Gerusalemme ieri manca di critica e analisi. In un servizio di Sky Tg 24 di commento sulla questione si è parlato di “Un altro passo indietro per Trump”, “Trump sempre più isolato”, “Trump continua a fare errori”. E’ accettabile che in un paese democratico come l’Italia un intervistatore (fortunatamente stava intervistando Germano Dottori, docente competente di studi strategici) si arroghi il diritto di giudicare “un fallimento”, in totale autonomia, un così importante cambiamento della scena internazionale? No. Non lo è. Trattare così una questione di tale importanza non lascia scelta a chi segue i media italiani: le azioni di Trump rappresentano un fallimento, lo dice questo Tg, o quell’altro. Quanto influisce un servizio televisivo del genere sulla mente di chi vuole semplicemente informarsi? Abbastanza. Dobbiamo ribaltare questa situazione non trovando qualcuno di migliore da ascoltare, ma pensando con la nostra testa.

Immaginiamo di spegnere per qualche ora la TV Italiana e metterci davanti ad un mappamondo per cercare di dare la nostra personale interpretazione su ciò che sta succedendo in Medio Oriente. Immaginiamo per qualche secondo di non dover combattere contro una stampa antitrumpiana, antisraeliana… anti qualsiasi cosa. Immaginiamo di vivere in un contesto neutro dove siamo noi stessi ad interpretare la direzione che ha preso Donald Trump ieri. E’ fondamentale fare questo esercizio per riavvolgere la scandalosa copertura che hanno dato i media italiani alla questione di Gerusalemme, e per rispondere a chi, da quella stampa, è stato ingannato. Oggi scioglieremo tutti gli imbrogli.

Donald Trump, quando mantenere le promesse diventa “reato”

Donald Trump è salito al potere un anno fa. Due anni fa nessuno credeva che avrebbe mai vinto le primarie. Un anno e mezzo fa, nessuno credeva che avrebbe mai battuto la Clinton. Tutta l’Europa era terrorizzata dalla sua candidatura, è stato trattato come uno psicopatico, una figura bizzarra senza alcun tipo di credibilità. Gli sforzi fatti per screditare la sua figura non hanno pari, la denigrazione che ha dovuto subire da parte dei media liberal americani ha rasentato il ridicolo, la manipolazione delle sue parole durante la campagna elettorale ha sfiorato l’assurdo, e ancora oggi la gente si sta chiedendo perché sia riuscito a vincere. “Deve essere per colpa della Russia. Deve aver truccato le elezioni.”

No. Prima capiamo questa cosa, prima riusciremo ad analizzare autonomamente quello che succede nel mondo. Trump è un imprenditore, che ha fatto politica per tutta la vita, che ha costruito un impero attraverso la sua capacità di farsi largo nel duro mercato americano, e al contrario di ciò che vogliono farvi credere non è un pazzo.

L’aver portato a casa la vittoria nonostante quasi tutta l’informazione contro è il più grande segno della caparbietà con il quale ha condotto la campagna elettorale. Gli Stati Uniti hanno eletto democraticamente Donald Trump. Nessun giudizio sulla scelta, solo la consapevolezza. E’ stato eletto come espressione della sovranità popolare statunitense.




Cosa ha fatto Trump fino ad ora?

E’ passato solo un anno, tirare le somme oggi è prematuro. Consideriamo alcune delle sue promesse elettorali.

Politica Interna

  1. Deregulation – ovvero semplificazione burocratica e abbassamento delle tasse– la prima promessa mantenuta. Gli Stati Uniti non hanno mai superato la crescita del 2% durante i mandati Obama, adesso si trova al 3%. La politica fiscale di Trump, così favorele alle aziende, esemplificata dalla nuova legge sulla tassazione ha generato degli sgravi fiscali importanti per le imprese, favorendone la crescita. In soldoni, ha fatto ripartire l’economia. Ma questo la stampa italiana preferisce ometterlo.

  1. Muslim Ban – A prescindere dall’opinione sulla questione, l’impegno di Trump preso in campagna elettorale è stato applicato appiano in pochissimo tempo dalla sua elezione. La lotta giudiziaria che ha accompagnato la sua decisione è la dimostrazione lampante che abbiamo di fronte una figura coerente e pragmatica, non di certo un “folle”.

  1. America First – Mettere in discussione tutti gli accordi non convenienti per l’economia e la politica statunitensi, da quello sul nucleare iraniano agli accordi di Parigi, la stessa NATO (criticando le nazioni che beneficiano dell’alleanza ma non “sborsano” quello che dovrebbero per mantenerla attiva) significa voler rielaborare una strategia che metta gli interessi di chi lo ha votato al primo posto. La scelta può senz’altro non essere condivisibile, ciò che deve essere condivisibile è invece l’assunto che ogni leader viene eletto democraticamente per governare su una nazione, non per sacrificare la stessa agli interessi della comunità internazionale.

  1. Politica estera – lasciamo che la stampa si sfoghi inventando insuccessi inesistenti e analizziamo con la nostra testa la situazione. Donald Trump non si è candidato per essere il leader del mondo libero, per esportare la democrazia americana, per fare lunghe passeggiate in terre straniere a vantare la vittoria in una battaglia che non sarebbe mai dovuta essere la sua. Trump è un repubblicano puro, non un Neoconservatore. Quale sarebbe la differenza? Semplice, i Neocon rappresentano una corrente a metà tra Democratici e Repubblicani (i due grandi partiti americani), liberisti in ambito economico – tassazione bassa, crescita rapida – e idealisti/interventisti in politica estera. I Neocon hanno tentato per trent’anni di implementare (perdonate l’inglesismo) governi da loro creati a tavolino che seguissero un modello di sudditanza verso gli Stati Uniti in varie parti del mondo. L’esperimento è riuscito in alcuni casi, in altri si è concretizzato in un’enorme, gigantesco rifiuto – da parte delle nazioni costrette – del concetto stesso di democrazia, facendo più danni di quanti non ne avesse risolti. La corrente repubblicana classica, rappresentata egregiamente da Richard Nixon – con il disimpegno in Vietnam e l’apertura con la Cina – quaranta anni fa ed oggi da Donald Trump rappresenta la semplice riaffermazione della superiorità dell’interesse nazionale americano. America first. E diciamoci la verità, se un Primo Ministro italiano dicesse “Italiani al primo posto”, sarebbe così deprecabile?

Come riaffermare la superiorità dell’interesse nazionale americano?

In un modo incredibilmente innovativo che purtroppo la comunità internazionale, a causa di un pregiudizio di fondo, non riesce a riconoscere. Questo passaggio è fondamentale.

Trump vuole affermare la superiorità dell’interesse nazionale americano appoggiando la riaffermazione degli interessi nazionali di ogni singola nazione e screditando le organizzazioni internazionali ( anche grazie a una serie di enormi assist e scivoloni da parte dell’ONU e dell’Unione Europea, due entità che oggi non godono più di alcun tipo di credibilità).

Senza soffermarci troppo su perché l’ONU sia un fallimento totale (ricordiamo solo le venti risoluzioni contro Israele confrontate alle sole 3 risoluzioni contro la Siria), l’UNESCO sia una barzelletta (negare il legame tra Gerusalemme e gli ebrei è stato forse lo scivolone più ridicolo e controproducente della storia dell’organizzazione stessa, che ha deciso di tagliarsi le gambe da sola), e l’Unione Europea sia l’espressione più evidente della rovina degli stati nazionali – avendo privato gli stessi del potere (che dovrebbe essere inviolabile per diritto naturale dello Stato-Nazione) di decidere come risanare la propria economia o come contrastare l’immigrazione incontrollata; cerchiamo di capire questo passaggio.

Trump crede nel concetto di Nazione. Non solo nella nazione “Stati Uniti”. E’ convinto, a ragion veduta, che ogni nazione dovrebbe avere il diritto di decidere per se stessa e per i propri cittadini. Questo è il motivo principale per il quale stiamo assistendo giorno dopo giorno ad una campagna di delegittimazione da parte della stampa occidentale.

In che modo Trump appoggia la sovranità delle altre nazioni? In primo luogo stabilendo alleanze ed accordi in maniera autonoma con stati che spesso vengono considerati “ostili” dalla fazione Democratica. L’apertura verso Putin, esemplificata dal lasciapassare fornito su un piatto d’argento per risolvere la situazione in Medio Oriente, è un chiaro segnale della fiducia di Trump nel ruolo della Russia. Non ha scomodato l’esercito americano ma ha auto fiducia in un altro attore della scena internazionale, solitamente considerato come nemico, acconsentendo alla sua presa di “potere” e accettando passivamente il suo sostegno ad Assad e all’Iran. Le critiche verso la sudditanza americana nei confronti dell’economia cinese, ribaltate dalla sua ultima visita a Pechino dove ha, invece, firmato accordi per una cifra che supera le decine di miliardi di dollari. Il sostegno alla lotta al terrorismo non attraverso le proprie truppe, ma attraverso l’appoggio a chi questo problema deve combatterlo al suo interno, con le proprie modalità, attraverso una regolamento dei conti non invasivo.
E’ chiaro, dopo il disastro della seconda guerra in Iraq, che ogni nazione ha bisogno di essere libera di contrastare il terrorismo nel modo che ritiene più opportuno, ed è altrettanto chiaro che l’intervento statunitense nelle dispute tra sciiti e sunniti, tra monarchie e repubbliche teocratiche, tra nazioni stabili e gruppi terroristi al loro interno, non è una buona strategia per nessuno, e Trump non ha fatto altro, fino ad oggi, che applicare queste piccole ma importanti regole della strategia politica repubblicana.

E adesso veniamo al riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.




La questione che riguarda Gerusalemme è davvero molto complessa: settant’anni di analisi dei migliori studiosi, politici e esperti del settore non sono bastati a definire una soluzione pratica e semplice per tutti. La facilità con cui oggi si sta giudicando questa scelta “sbagliata” è indice di una regressione culturale occidentale senza precedenti. La capacità critica e di analisi è andata a farsi friggere insieme all’assunto indiscusso che ogni nazione ha il diritto di decidere per se stessa. Nessuna capitale di nessuna nazione al mondo ha sottoposto la scelta ad un altro attore che non fosse se stessa.
La comunità internazionale non ha alcun diritto di scelta in questo ambito e l’inutilità delle risoluzioni ONU a questo proposito non è altro che lo specchio di un enorme fallimento di qualcosa in cui tutti abbiamo creduto.
Qualsiasi potere attribuito agli organi internazionali come l’ONU, la NATO, l’UE non è innato ma viene attribuito dagli stati stessi. Questo significa che gli stati hanno un potere contrattuale enormemente superiore a quello delle Organizzazioni Internazionali: sono loro a decidere se e quanta sovranità cedere, se il gioco vale la candela o meno. Sembra che il mondo, la stampa, la politica, tutti si siano dimenticati di un concetto che sta alla base della creazione delle OI: esse nascono per rispondere al preciso interesse di ogni nazione aderente, e non possiedono alcun potere se non quello che le nazioni stesse decidono liberamente di concedere.
In questo contesto, la tipica arroganza di fare l’interesse solo di una o poche nazioni al proprio interno ( si veda il Consiglio di Sicurezza ONU, organo elitario totalmente obsoleto che da decenni non rappresenta più il mondo, si veda Germania con l’Unione Europea e tutti i rigurgiti di estrema destra e sinistra antieuropeista che ha generato, si veda la NATO che è nata in chiave antirussa durante la guerra fredda e in quest’ottica non ha più alcun motivo di esistere, considerando che la guerra fredda è finita dall’89) sta minando le basi e sgretolando i pilastri, lentamente, di ogni organizzazione internazionale con questa impronta.

Torniamo a Gerusalemme, perché abbiamo ormai capito che è diritto di ogni nazione scegliere quale sia la propria capitale.

Il 30 luglio 1980 la Knesset (il parlamento Israeliano) ha dichiarato Gerusalemme capitale unica ed indivisibile dello stato di Israele. Gerusalemme è de facto la capitale dello stato ebraico, vi risiedono gli organi politici, la Corte Suprema, il Parlamento stesso. Insomma, senza che ce lo dicesse Trump, Israele non ha nessun’altra possibile capitale.

Dire ciò che Gerusalemme è, è molto semplice, non altrettanto semplice è affermare se dovrebbe essere riconosciuta o meno. Quali motivazioni dovrebbero spingere tutte le nazioni del mondo a riconoscere un fatto ovvio? Chi non accetta che Gerusalemme venga considerata la capitale di Israele?

I Palestinesi. Ovviamente, anche la popolazione che corrisponde al nome di palestinesi ritiene che Gerusalemme debba essere la propria capitale. La sacralità della Moschea rappresenta un buon escamotage per far sembrare vera questa affermazione. Vediamo di screditarla.

LEGAMI RELIGIOSI

Nel 2001 Daniel Pipes ha scritto un articolo utile per capire le rivendicazioni dei musulmani su Gerusalemme, un articolo che si consiglia vivamente a chi vuole avere un quadro più completo della situazione. Qui la traduzione per L’Informale

“Il legame che unisce gli ebrei a Gerusalemme è antico e fortissimo. Il Giudaismo rese Gerusalemme una città santa oltre tremila anni fa e per tutto questo tempo gli ebrei sono rimasti fedeli a essa. Gli ebrei pregano nella sua direzione, menzionano costantemente il suo nome nelle preghiere, terminano la Pasqua con la frase nostalgica: “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Che ne è stato dei musulmani? Qual è il posto di Gerusalemme nell’Islam e nella storia musulmana? Non è il luogo verso cui pregano, non è menzionata una sola volta per nome nelle preghiere, e non è direttamente connessa a nessun avvenimento della vita di Maometto. La città non è mai stata la capitale di uno stato musulmano sovrano, né è mai diventata un centro culturale o accademico. Ben poche iniziative politiche islamiche di un certo spessore hanno tratto origine qui.”

Il paragone che fa Pipes non è solo qualitativo ma anche quantitativo. Gerusalemme appare nella bibbia ebraica 669 volte, e altre 154 è menzionata attraverso la parola Sion, un sinonimo. Nel Corano la parola Gerusalemme non comprare neanche una volta. Perché allora da decenni arrivano messaggi di lotta e martirio da ogni angolo del mondo arabo finalizzato all’appropriazione di Gerusalemme? Perché gli arabi proclamano sacrifici in nome di una moschea che non dovrebbe essere così importante? Politica, dice Pipes. E spiega bene ogni contesto storico nel quale agli arabi ha fatto comodo considerare Gerusalemme una città “vitale”, e tutti i casi in cui, invece, l’hanno abbandonata a se stessa. Un esempio? La Conferenza di Sanremo del 1920, quando, dopo la prima guerra mondiale, i leader della regione si incontrarono stabilendo un piano di ripartizione nel quale gli arabi non chiesero di ottenere Gerusalemme.

Vogliamo chiederci se davvero una risoluzione ONU abbia il diritto di interferire su un accordo preso dalle parti in questione? La domanda non va lasciata aperta, la risposta è NO. Così come è stata NO la risposta dei palestinesi a qualsiasi accordo di pace che presenteremo in seguito.

STORIA E DIRITTO

Ci sono centinaia di popolazioni al mondo che hanno cercato, o che cercano ancora di costituire un proprio stato indipendente. Curdi, ceceni, baschi. L’unica popolazione che millanta la necessità di uno stato indipendente ma che nel corso della storia ha fatto di tutto per evitarne la riuscita è quella palestinese. Crogiolarsi nella loro stessa vittimizzazione, lamentarsi con l’occidente di obiettivi che loro stessi hanno rifiutato di raggiungere, rifiutare qualsiasi possibile accordo di pace, questa è l’attività che caratterizza l’elite palestinese da decenni a questa parte. I palestinesi hanno rifiutato il piano di ripartizione ONU del 1947, quello del 1967, Camp David, il Summit di Taba e il Piano Olmert. Cosa vogliono dunque?




  1. Vivere sereni in un luogo dove professare liberamente il proprio credo? No. Esistono 22 nazioni arabe contro una sola, minuscola e insignificante nazione Ebraica. Se avessero voluto solo la “serenità” avrebbero scelto di convivere con la maggioranza Palestinese residente oggi in Giordania.

  2. Non essere più rifugiati? No. Lo status di rifugiato è normalmente concesso solo al rifugiato stesso non certo alle generazioni successive. NON sono rifugiati. Vengono considerati dalla Comunità Internazionale come tali e per questo ricevono ingenti benefici. Benefici che perderebbero se la Palestina diventasse un’entità statale. Furbi eh.

  3. Una soluzione due stati? No. Non hanno MAI riconosciuto il diritto all’esistenza dello Stato di Israele, di conseguenza la soluzione a due stati non è MAI stata un’opzione da perseguire secondo i palestinesi. Curioso che l’occidente non se ne sia mai accorto.

Da un punto di vista di diritto internazionale, vale a dire la carta che ai palestinisti piace giocare difendendo l’indifendibile, la sovranità di Israele su Gerusalemme non può essere messa in discussione poiché non si tratta di una città appartenente ad uno stato aggredito.
Se è vero che nel 1948, dopo la creazione dello stato di Israele, gli Stati arabi hanno volontariamente deciso di attaccare uno stato sovrano, violando con l’occupazione dei territori israeliani la Carta Fondamentale ONU, è altrettanto vero che Gerusalemme non è stata mai dichiarata parte di una nazione o di un’altra negli anni successivi. Se anche fosse stata dichiarata palestinese, la sua riconquista nel 1967 non è stata causata da un’aggressione israeliana, bensì dalla risposta ad un’aggressione giordana, una Giordania che deteneva già la sovranità sulla cosiddetta Gerusalemme est e che l’ha persa a causa di una guerra che lei stessa ha iniziato. Il diritto internazionale dei conflitti armati inquadra questa situazione nel concetto di “legittima difesa”. Solo in presenza di un accordo di pace TRA LE PARTI lo status di Gerusalemme potrebbe cambiare. In assenza di accordi Israele non commette alcun illecito a considerare Gerusalemme capitale unica e indivisibile– beninteso che bisognerebbe fare un discorso diverso per quanto riguarda le cosiddette “colonie” – .

LA STRATEGIA DI TRUMP

Donald Trump ha compiuto una scelta di grande coraggio. Se la legge che ha stabilito lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme risale ad una proposta di Bob Dole datata 1994, approvata dagli organi legislativi statunitensi e ratificata dall’allora presidente Bill Clinton, è altrettanto vero che ogni presidente (da Clinton in poi) ha utilizzato periodicamente la clausola che rimandava l’effettiva applicazione della legge per motivi di “Sicurezza nazionale”, e che Donald Trump è il primo leader ad aver, finalmente, cessato questo rallentamento.

Per decenni i leader di tutto il mondo hanno voltato la faccia di fronte a questa ipocrisia, incontrando i leader politici israeliani a Gerusalemme ma di fatto non riconoscendola capitale dello stato di Israele. Per decenni le relazioni tra Israele e le altre nazioni del mondo sono andate avanti nonostante l’offesa che deriva dalla scelta di fingere che a Gerusalemme non abbia sede il governo israeliano, delegittimandone l’identità. Sull’onda di questa ovvietà Trump ha voluto lanciare un importante messaggio politico, che se letto con gli occhi di chi vuole capire, e non giudicare, può essere ampiamente condivisibile.
Gli Stati Uniti non vogliono immischiarsi, non vogliono più essere i mediatori, non vogliono questa responsabilità e finalmente hanno deciso di cederla, riconoscendone il ruolo fondamentale, alle parti in causa.

In primo luogo, Trump ha interesse che nella regione vi sia pace. Il disimpegno americano in Medio Oriente passa necessariamente per la stabilità della regione, e la stabilità della ragione passa anche per la stabilità in Israele.
Un riconoscimento di questo tipo rappresenta una rassicurazione ad Israele che di fatto perde molto del suo potere contrattuale nei confronti degli Stati Uniti.
Questo significa che, verosimilmente, gli Stati Uniti chiederanno ad Israele molto più di qualche concessione per limitare il conflitto, e questa volta Israele non potrà rifiutarsi. La preoccupazione manifestata dai leader occidentali quali Merkel, Macron, e anche dal Papa, sulle violenze che potrebbero scatenarsi a seguito di questa decisioni sono inutili e dannose per tutto il mondo arabo in cerca di stabilità.
I palestinesi non hanno MAI smesso di colpire i cittadini israeliani, questa decisione potrebbe peggiorare il rischio di attentati nel breve periodo, ma potrebbe anche aumentare il ventaglio delle possibilità di una pace durevole che si valuterà nel lungo periodo. Se appare ironico che la principale preoccupazione di Papa Francesco non siano i cristiani massacrati nella maggior parte dei paesi islamici, bensì che Gerusalemme abbia finalmente il riconoscimento che merita, non è altrettanto ironica la valutazione degli stati arabi, da cui si attende forte indignazione.
E’ stato proprio Trump che, grazie ad una idea israeliana, ha deciso di appoggiare il fronte israelo-sunnita catalizzando una situazione che potrebbe davvero rappresentare un primo passo verso la fine dell’ostilità e del conflitto tra gli arabi e Israele. D’altra parte gli stessi stati arabo-sunniti hanno appena iniziato ad interfacciarsi con Israele, specialmente l’Arabia Saudita, la Giordania e l’Egitto, ed è davvero poco credibile la possibilità che questi rinuncino alla cooperazione in ambito di sicurezza con Israele solo perché Abbas è scontento.

PACE E STABILITA

Al contrario di quanto afferma la stampa occidentale, il gesto di Trump è fortemente indirizzato alla pace a alla stabilità nella regione. Trump non si è opposto all’impegno di Putin in Siria, e di conseguenza neanche all’alleanza tra Russia e Iran, ha lasciato che l’Arabia Saudita facesse un passo avanti – con le proprie gambe – verso un inizio di liberalizzazione economica e verso l’acquisizione di un ruolo più forte all’interno della regione attraverso la diversificazione delle entrate derivanti dal petrolio, ha evitato di impegnare in maniera invasiva le truppe americane in Medio Oriente, riportando sostanzialmente il contesto multipolare ad una condizione di stati sovrani pronti a uscire fuori dalle dispute in maniera autonoma. Oltre a tutto questo, è stato l’unico leader statunitense a capire che nessun leader israeliano, dal più conservatore al più progressista, avrebbe mai accettato alcun piano di pace che non comprendesse Gerusalemme come capitale riconosciuta dello stato di Israele (fu lo stesso Rabin a dichiarare l’indivisibilità di Gerusalemme l’unica possibile opzione). Dunque quello che dovrebbe, a questo punto, essere chiaro è che senza il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele non ci sarà mai alcun tipo di pace. Questo Trump lo ha capito, e ha tagliato la testa al toro mettendo Israele e Autorità Palestinese in condizione di negoziare un accordo.




Oggi, attraverso il riconoscimento di uno status già esistente, il presidente ha recuperato tutta la fiducia che Israele aveva perso negli Stati Uniti negli otto anni di era Obama, concedendo e, di conseguenza, aprendo uno spiraglio per le richieste della controparte. Se un domani vi sarà un impegno concreto, come ha affermato durante il discorso di ieri, di Israele e Autorità Palestinese nel processo di pace allora egli stesso rispetterà gli accordi presi dalle parti. Se l’Autorità Palestinese avesse capito quanto poco in questo momento le nazioni arabe siano interessate al loro destino, certamente eviterebbe di fare gran chiasso e inizierebbe a pensare a quanto questo cambiamento li stia mettendo nella posizione di poter avanzare richieste. Purché siano credibili.

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