Israele e Hamas

Hamas divisa sul piano di pace di Trump: tra aperture tattiche e resistenze armate

Hamas ha annunciato al mondo di aver accettato gran parte del piano di pace proposto da Donald Trump, ma dietro le dichiarazioni ufficiali l’organizzazione resta lacerata da profonde divisioni. Se all’esterno il gruppo islamista tenta di mostrarsi pronto al compromesso, internamente la spaccatura tra l’ala politica e quella militare continua a condizionare ogni mossa, rendendo l’ipotesi di un cessate il fuoco duraturo ancora lontana.

Venerdì scorso Hamas aveva diffuso un comunicato definito «storico», in cui si diceva disposta a rilasciare gli ostaggi israeliani e ad accettare una transizione di potere su Gaza. Parole che, per la Casa Bianca, rappresentavano una svolta capace di rafforzare la strategia di Trump per chiudere la guerra. Ma il linguaggio ambiguo scelto dal movimento, rilevano diversi osservatori, lascia margini interpretativi tali da minare il cuore stesso dell’accordo: disarmo dei miliziani e condizioni per la liberazione degli ostaggi.

Secondo mediatori arabi coinvolti nei colloqui, il principale negoziatore di Hamas, Khalil al-Hayya, insieme ad altri esponenti politici della diaspora, avrebbe sostenuto l’accettazione della proposta, pur con riserve significative. Tuttavia, di al-Hayya non si hanno più notizie dal 9 settembre, giorno in cui un raid israeliano ha colpito Doha: c’è chi ipotizza che possa essere rimasto ucciso insieme a Khaled Meshal, storico leader politico del movimento. Il suo silenzio pesa sulla leadership esterna di Hamas e alimenta dubbi sulla reale capacità di incidere nelle trattative. In ogni caso, l’influenza dei dirigenti in esilio resta limitata sull’ala armata, radicata dentro la Striscia.

A Gaza la situazione è più complessa. Dopo l’uccisione dei fratelli Yahya e Mohammed Sinwar da parte di Israele, la guida militare è passata a Ezzedin al-Haddad. Quest’ultimo si è detto disponibile a compromessi, arrivando a ventilare l’ipotesi di consegnare razzi e armi pesanti all’Egitto e alle Nazioni Unite, mantenendo però i fucili d’assalto, considerati «armi difensive».

Il nodo centrale resta proprio questo: l’imposizione del disarmo rischia di far esplodere il fronte interno. Hamas ha arruolato migliaia di giovani dall’inizio della guerra, spesso reduci dalla perdita di familiari o dalla distruzione delle proprie case. Mediatori e funzionari arabi temono che questi combattenti non accetterebbero di deporre le armi, interpretando un eventuale accordo come una resa umiliante. Non a caso, tra i quadri militari c’è chi bolla la proposta come una semplice «tregua di 72 ore» e non come un vero percorso di pace.

Trump, nel frattempo, ha rilanciato la sua visione sui social, dichiarando che Hamas «è pronto per una pace duratura». Ha invitato Israele a sospendere i bombardamenti su Gaza per garantire le condizioni minime di sicurezza necessarie al rilascio degli ostaggi. La Casa Bianca ha fatto sapere di considerare la risposta del movimento come un’accettazione di principio, anche se vincolata a ulteriori negoziati.

I vertici armati del gruppo hanno però dettato le loro condizioni: ogni rilascio di ostaggi dovrà essere accompagnato da una chiara tempistica sul ritiro israeliano dalla Striscia. «Gli ostaggi saranno liberati con la fornitura delle necessarie posizioni sul campo» hanno fatto sapere i mediatori, riportando il messaggio recapitato da Gaza. Una formula che ha spinto Israele a mantenere una linea prudente. Benjamin Netanyahu ha risposto che il Paese «si prepara al rilascio» ma alle condizioni di Gerusalemme e del presidente americano. L’esercito, pur annunciando un atteggiamento più difensivo, non ha escluso nuove operazioni in caso di minacce dirette.

Alla luce di quanto accaduto nelle ultime ore, l’impressione è che Hamas abbia redatto un documento calibrato più per compiacere Trump che per aderire davvero alla sua proposta. In sostanza, un «no» mascherato da linguaggio diplomatico. Perché mai Hamas dovrebbe rinunciare all’unico strumento rimastogli per negoziare con Israele, ossia gli ostaggi? Quei prigionieri rappresentano la sola leva per mantenere un potere di ricatto e nessun osservatore serio crede che verranno liberati tutti senza contropartite di enorme valore.

Le fratture interne a Hamas emergono anche nelle reazioni politiche. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha liquidato la dichiarazione del movimento come «un prevedibile Sì, ma», sottolineando che l’assenza di un vero disarmo e la subordinazione del rilascio degli ostaggi a condizioni negoziali equivalgono, di fatto, a un rifiuto mascherato.

Sul terreno, Hamas appare indebolito ma non sconfitto. L’ala armata ha perso gran parte della leadership e migliaia di miliziani esperti, rimpiazzati da reclute poco addestrate. L’assedio israeliano ha reso difficili comunicazioni e coordinamento, costringendo il gruppo a delegare il comando a cellule più piccole, che spesso agiscono in autonomia con tattiche di guerriglia, tra esplosivi, cecchini e razzi improvvisati. Lo stesso Haddad esercita un controllo limitato su queste unità, aggravato dalla grave crisi finanziaria che ha ridotto la capacità di Hamas di pagare stipendi e mantenere la fedeltà dei combattenti.

Israele ha conquistato ampie zone di Gaza City, evacuata in gran parte dai civili e abbandonata da molti miliziani diretti a sud. Restano alcune migliaia di combattenti, in gran parte giovani e inesperti, ma determinati a proseguire la resistenza. Secondo un alto ufficiale israeliano, gli episodi di resa sono rarissimi e avvengono solo quando i miliziani si trovano completamente circondati.

Amir Avivi, ex generale israeliano, ha commentato: «Per la prima volta in questa guerra Hamas inizia a capire che la sua eliminazione è reale». Ma gli stessi mediatori arabi mettono in guardia: un’eventuale firma del piano di Trump potrebbe spaccare ulteriormente il movimento, con il rischio di defezioni verso altri gruppi palestinesi come la Jihad Islamica o il Fronte di Liberazione Palestinese, già attivi con cellule autonome.

Proprio per questo Qatar, Egitto e Turchia hanno intensificato le pressioni, avvertendo i leader islamisti che questa potrebbe essere «l’ultima occasione» per fermare la guerra. Se Hamas respingerà l’intesa, hanno fatto sapere fonti arabe, il sostegno politico e diplomatico finora garantito non potrà più essere assicurato.

In un messaggio pubblicato online, Trump ha concluso: «Non si tratta solo di Gaza, ma della pace a lungo cercata in Medio Oriente». Ma al di là della retorica, la realtà è che Hamas resta divisa, Israele diffida delle sue promesse e la tregua appare ancora appesa a un filo.

 

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