Editoriali

Il cadavere di Oslo e la sua necessaria sepoltura

Dal nostro inviato in Israele, Niram Ferretti

“Ventitrè anni dopo il suo euforico varo sul prato della Casa Bianca, il ‘processo di pace’ di Oslo, tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), si staglia come una delle peggiori calamità che abbiano afflitto il conflitto israeliano-palestinese”. Così scriveva nel 2016, Efraim Karsh in un suo articolo apparso sul Middle East Quarterly, dal titolo eloquente Why the Oslo Process Doomed Peace.

Nell’articolo, il grande storico israeliano, professore emerito al Kings College di Londra, scandisce implacabilmente le funeste modalità di questa calamità, dal costo pagato in vite umane da Israele (1600 cittadini, più 9000 feriti), al rebranding di Yasser Arafat, (all’epoca ridotto a poco meno di un reietto e confinato a Tunisi), come nation builder, all’installazione nel cuore di Israele di una organizzazione terrorista tra le più sanguinarie del pianeta.

Tutto questo fu reso possibile, non va sottolineato mai abbastanza, dal cosiddetto “terzetto della pace”, composto da Shimon Peres, Isaac Rabin e Yossi Beilin, i tre uomini, la cui miopia politica, vanità, e dissonanza cognitiva, prepararono il terreno, con la benedizione della Casa Bianca, per quella che avrebbe potuto essere la  capitolazione di Israele. Non fu tale, non per merito di Israele, ma per l’incapacità di Arafat di sapere attendere come fece Maometto dopo la pace di Hudaibiya, quando, a seguito della stipula di un accordo di pace con i meccani, che sarebbe dovuto durare nove anni, li attaccò solo due dopo appena ebbero abbassato le difese.

E Hudaibiya veniva indicata da Arafat come il modello a cui ispirarsi, quando, dismessi i panni dell’uomo di pace, per la quale gli venne addirittura assegnato il Nobel, qui in Medioriente arringava i suoi seguaci spiegando che gli accordi di Oslo altro non erano se non una pietosa messinscena. Ma, di nuovo, Arafat, non seppe aspettare come il profeta, calmare le acque e impedire le due intifade. Se avesse avuto lungimiranza, se avesse frenato i suoi, se avesse aspettato confucianamente sulla riva del fiume, oggi, sulle colline della Giudea e Samaria, sorgerebbe quello Stato palestinese che il vanesio Shimon Peres gli voleva regalare. Un nuovo e definitivo avamposto del terrore a pochi chilometri da Tel Aviv. Una Gaza nel cuore di Israele.

Dall’articolo di Karsh a oggi sono passati altri due anni, e lo spettro di Oslo aleggia ancora tra di noi. Sono venticinque anni che esso continua a infestare il dibattito politico. E’ giunto il momento di sbarazzarsene definitivamente, di congedarlo dalla scena attraverso l’unico esorcismo consentito, che è quello di fare appello alla realtà, l’odiata realtà, il fardello insopportabile per gli “idealisti”, per i trasformatori di pietre in pane, per i narcotrafficanti e mentitori compulsivi come Gonan Segev, il cui voto fu decisivo per fare passare alla Knesset un accordo che spaccò in due l’opinione pubblica.

Israele ha oggi, in virtù della presenza alla Casa Bianca di un presidente vicino alle ragioni dello Stato ebraico come nessun altro prima di lui, di  mostrare a Donald Trump, il realista Trump, che Oslo non ha più senso, che uno Stato palestinese in Giudea e Samaria non vedrà mai la luce e che, come John Bolton, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, grande esperto della questione, sa benissimo, l’unico Stato palestinese concepibile esiste già e si chiama Giordania.

L’Amministrazione Trump, dal canto suo, ha infatti l’opportunità di giocare questa carta e di gettare nella spazzatura i vecchi paradigmi, di rivoluzionare l’assetto consolidato, come ha già fatto dichiarando Gerusalemme capitale di Israele, spostando l’ambasciata americana, mostrando l’irrilevanza politica di Abu Mazen e certificandone l’inesorabile declino. Ha l’opportunità, con il consenso di Israele e la sponda degli stati arabi sunniti, in testa una Arabia Saudita che ha tremendamente bisogno della protezione americana dalle mire sciite e ha in Israele, sotto questo aspetto, un formidabile alleato, di dichiarare definitivamente chiusa la penosa rappresentazione di Oslo.

Si tratta dunque di congedare lo spettro, di seppellire il cadavere imbalsamato, di fare convergere verso il regno hashemita tenuto in piedi da USA e puntellato da Israele, i territori dell’Area A e B della Giudea e Samaria, dove, fino al 1988 gli arabi-palestinesi residenti avevano tutti il passaporto giordano, poi revocato, e di far sì che Israele integri l’Area C e i suoi insediamenti all’interno dei propri confini. Si tratta di fare trionfare la realtà sopra le fantasie e le astrazioni di chi ha affatturato per lunghi anni Israele con un malefico sortilegio il cui potere deve essere annullato.

Se non ora, mai più.

 

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