Israele e Medio Oriente

Il caso Alami e la gestione dei profughi palestinesi

La storia dell’imprenditore palestinese Musa Alami è molto istruttiva al fine di comprendere come i profughi palestinesi fin da subito sono stati trasformati in uno strumento politico da opporre a ogni tentativo di risolvere il conflitto che contrappone gli arabi ad Israele. Questo strumento, nel corso dei decenni, è stato ingigantito smisuratamente da un’agenzia ONU, che è stata completamente svuotata dal suo iniziale scopo per diventare, a sua volta, nel tempo, un vero e proprio strumento per continuare la guerra con altri mezzi: l’UNRWA.

Musa Alami, nato in una importante famiglia araba (il padre Faidi fu sindaco di Gerusalemme) e membro dell’Alto Comitato arabo formatosi dopo la guerra del 1948, è sempre stato molto attivo tra quanti, in nessun modo, volevano trovare un compromesso con il nascente Stato di Israele. Il suo attivismo politico lo aveva reso molto noto tra gli arabi. Egli fu anche uno dei “consulenti” utilizzati dalle autorità britanniche per redigere il “Libro bianco” del 1939 con il quale di fatto si voleva impedire l’attuazione del Mandato Britannico per la Palestina. Di famiglia facoltosa fu tra coloro che non accettarono l’indipendenza di Israele e così decise di andare a vivere nei pressi di Gerico dove aveva degli appezzamenti di terra. A quel tempo Gerico e tutta la Samaria erano occupate dalle forze armate giordane.

Dopo la firma dell’armistizio tra Giordania e Israele nella primavera del 1949, capì immediatamente che la questione dei profughi non si sarebbe risolta velocemente, così decise di dare un’opportunità di lavoro e di benessere a molti profughi creando una moderna e efficiente azienda agricola lungo le sponde del fiume Giordano.

Contro ogni logica e consiglio si mise a cercare dei pozzi d’acqua – indispensabili per l’attività agricola – in pieno deserto nei pressi del Mar Morto, trovando, inaspettatamente, l’acqua dolce. Neanche le autorità giordane si dimostrarono molto collaborative rifiutandosi di fornire la necessaria attrezzatura. Nonostante ciò, con caparbietà riuscì a costruire ben 15 pozzi (poi crebbero fino a diventare 50).

Fin da subito la qualità dei raccolti si dimostrò davvero eccezionale grazie all’alta concentrazione di potassio presente nel terreno. Iniziò così la costruzione di un intero villaggio per fornire una sistemazione a centinaia di famiglie di arabi sfollati a causa della guerra. In poco tempo divenne tanto famoso da attirare l’attenzione anche del New York Times che lo definì, per il lavoro intrapreso, “il Mosè arabo”.

Pur non riconoscendo la legittimità di Israele, egli era convinto, che bisognava trovare una sistemazione e un lavoro alle persone che vivevano nei campi profughi per garantirgli un futuro che altrimenti sarebbe stato solo di miseria e di odio.

In pochissimo tempo questa moderna azienda agricola divenne tanto importante da esportare frutta e verdura in molti paesi arabi circostanti e nel Golfo Persico. Grazie a lui migliaia di persone riuscirno a trovare lavoro e a uscire dai campi profughi circostanti. In forza alle abilità commerciali di Alami, la sua azienda agricola riuscì a siglare un contratto pluriannuale con l’Aramco per la fornitura di frutta e verdura per le migliaia di dipendenti della società petrolifera saudita. Con i proventi realizzati, Alami, costruì delle cliniche e una scuola per i figli dei dipendenti e iniziò contemporaneamente la costruzione di numerose case in muratura, cosa non ancora diffusa tra i giordani.

In pratica il suo fu l’unico progetto concreto realizzato per offrire una sistemazione adeguata ai profughi. All’apice del successo però, l’opinione pubblica araba iniziò a considerare il reinserimento e il recupero dei profughi come un vero e proprio tradimento. Così, uno alla volta, tutti i progetti organizzati anche dall’ONU tramite l’UNRWA (l’agenzia ONU diventata nel frattempo l’agenzia esclusiva dei profughi palestinesi) iniziarono ad essere boicottati, milioni di dollari venivano spesi senza che ci fosse un minimo costrutto. Gli arabi accettavano solo aiuti di sussistenza che non arrecassero un beneficio duraturo ai profughi: non si voleva la loro integrazione e la loro sistemazione. Perciò ogni progetto volto a garantire una autonomia economica veniva rifiutato a favore della mera sussistenza alimentare. In questo clima generale, l’impresa agricola di Alami fu presa di mira. Per il suo lavoro incessante volto a migliorare le condizioni economiche e di vita dei profughi, Alami fu accusato dai palestinesi stessi, di tradimento e di collaborazionismo con Israele. Il suo curriculum anti israeliano non fu sufficiente a salvarlo dalle accuse. Il solo fatto di provvedere al benessere di migliaia di persone era sufficiente per dimostrare le accuse di “normalizzazione” con il nemico.

Nel dicembre del 1955 – durante una sua assenza per lavoro – una folla inferocita assaltò la sua azienda agricola e i relativi campi distruggendo tutto. Tutte le strutture furono rase al suolo e i campi distrutti. Gli organizzatori che fomentarono la folla erano gli stessi capi clan dei campi profughi attorno a Gerico. Alami stesso si salvò solo perché in quei giorni era a Beirut. L’azienda fu saccheggiata e distrutta così come le cliniche, l’orfanotrofio e la maggior parte delle case costruite. L’attività agricola non ripartì più dopo la distruzione. Ormai era evidente che nessuna iniziativa, atta a sistemare il problema dei rifugiati, organizzata sia da palestinesi che da organizzazioni internazionali non poteva avere successo. Questo per una semplice ragione: la sistemazione dei rifugiati nei paesi arabi avrebbe significato la fine della guerra, ma questo non è mai stato ciò che gli arabi volevano, compresi, chiaramente, i palestinesi.

In modo chiaro e inequivocabile i profughi, già a partire dagli anni ’50, erano visti come un potente strumento di guerra. Non volendo sistemare la questione dei profughi, gli arabi sapevano che il conflitto non si sarebbe mai risolto. E a questo scopo trovarono un potentissimo alleato: la comunità internazionale, tramite l’Unrwa.

L’uso strumentale dell’Unrwa

Che l’Unrwa avesse fallito completamente il suo compito era chiaro fin dal 1958. E la causa fu il comportamento stesso dei profughi che non accettarono nessun piano di sviluppo proposto dall’organizzazione. La scelta fu chiara: preferivano vivere in condizioni estremamente precarie pur di mantenere viva la lotta contro Israele.

Nell’autunno del 1958 la delegazione USA all’ONU era ormai decisa a sospendere il rifinanziamento dell’agenzia, la quale nei 10 anni di attività, aveva già speso svariate centinai di milioni di dollari senza che un solo profugo fosse stato sistemato. Anzi, il numero di profughi era aumentato enormemente mentre tutti i progetti avviati si erano arenati senza il minimo costrutto.

Il discorso tenuto dal rappresentante americano all’Assemblea Generale, Harrison era stato categorico: era ormai evidente che l’Unrwa era fallita e bisognava chiuderla. La reazione araba fu furiosa e in blocco minacciarono di abbandonare le proprie posizioni filo occidentali. Preso dal panico il Dipartimento di Stato fece una clamorosa marcia in dietro. L’anno successivo gli americani e tutti paesi occidentali votarono per il rifinanziamento dell’agenzia senza che fosse approvata la ben che minima riforma, anzi tutta la gestione passò sotto il controllo arabo. In pratica si consumò un “matrimonio politico” di convenienza tra gli Stati Uniti e i paesi arabi: gli americani (e gli altri paesi occidentali) pagavano l’UNRWA e gli arabi la dirigevano come meglio ritenevano. Da questo momento le cose cambiarono drasticamente. Tutti i progetti atti allo sviluppo e alla realizzazione di posti di lavoro furono completamente abbandonati. L’UNRWA iniziò ad occuparsi solo di “educazione” e distribuzione di cibo.

Per quanto concerne l’educazione, l’agenzia ONU assunse insegnati arabi e dirigenti occidentali che iniziarono a istruire i bambini all’odio e agli ideali di vendetta verso Israele e gli ebrei in generale. Prassi che dura tutt’oggi. Per essere accettato dai profughi, il personale doveva avere posizioni contrarie a ogni compromesso con Israele e quindi avallare la loro posizione di “vittime”, le quali, come riparazione al torto subito dovevano necessariamente “tornare” in Palestina.

Nel corso degli anni i dipendenti stessi dell’UNRWA – in piena simbiosi con i profughi – sono diventati a loro volta i portavoce dei presunti torti subiti dai palestinesi. In pratica tutte le generazioni di palestinesi che crescevano nei campi profughi venivano radicalizzatie con l’educazione scolastica a cui erano sottoposte in una spirale di demagogia, odio e risentimento che si è autoalimentata per decenni nel solo ideale di rivincita. Nessun funzionario ONU che non fosse allineato su queste posizioni veniva accettato. Inoltre, l’altro compito a cui era destinato la restante parte dei fondi occidentali era la fornitura di alimenti necessari per il sostentamento ma che non portarono mai ad uno miglioramento generale della condizione dei profughi. Si arrivò al punto che ebbe inizio una compravendita di voucher alimentari la quale finì per arricchire i capi clan ai danni della maggioranza della popolazione. Siccome nessuno era tenuto al controllo dell’effettivo numero di persone esistenti, nel corso dei decenni, venivano dati i voucher alimentari anche alle persone morte o emigrate da molti anni (e che venivano ritirati dai parenti). I vaucher venivano poi rivenduti al mercato nero per guadagnare dei soldi extra. In questo modo il numero dei profughi aumentò enormemente nel corso degli anni anche se i profughi effettivi erano molto meno numerosi.

A questa situazione già unica di per se, si aggiunsero altre “unicità”. Nel 1965, unico caso al mondo, lo status di rifugiato vennne esteso ai figli e ai nipoti dei rifugiati del 1948. In poco tempo il numero dei rifugiati raddoppiò passando da 1.1 milioni a 1.8 milioni (oggi sono oltre 5.2 milioni).

Nel 1982 l’Assemblea Generale dell’ONU approvò una risoluzione nella quale si estendeva lo status di rifugiano a tutti i discendenti, cosa che poi fu estesa alle adozioni e ai matrimoni. Ormai si poteva diventare “rifugiato palestinese” senza neanche essere palestinese e senza mai aver vissuto un solo giorno in tutto il Medio Oriente (cosa diffusa tra le migliaia di “profughi” che vivono in USA e in Canada). Se a questo aggiungiamo che nessun paese arabo – ad eccezione della Giordania – abbia mai concesso la cittadinanza ad un solo profugo si capisce come la situazione sia oggi tale che la soluzione del loro problema sia ardua da risolvere. Si può tranquillamente affermare che con le “riforme” approvate dall’Agenzia governativa i profughi sono diventati un “problema perpetuo” con il solo scopo politico di creare pressioni su Israele, mentre l’UNRWA è diventata una “fabbrica di rifugiati” con lo scopo di autoalimentare i funzionari ONU per creare posti di lavoro garantiti per le migliaia di addetti, quadri e dirigenti che ne compongono la compagine.

In conclusione gli arabi imputarono agli USA e alla Gran Bretagna la loro sconfitta del 1948 e vedono nel mantenimento dei profughi un “obbligo” e una riparazione del “torto” subito. A ciò si è aggiunto l’atteggiamento occidentale completamente passivo sulla questione al fine di mantenere buoni i rapporti – soprattutto con l’Arabia Saudita – sia politici che economici.

Nel corso degli anni, con il passaggio dell’UNRWA completamente in mano araba, l’ente è stato gestito e trasformato in qualcosa di completamente diverso rispetto al suo scopo originario mentre l’Occidente lo finanziava senza chiedere conto di come venivano spesi i soldi. Oggi, a distanza di decenni e dopo incalcolabili danni fatti, l’Occidente chiede ad Israele di pagare il conto con l’assorbimento dei profughi e il suo inevitabile venire meno come Stato a maggioranza ebraica.

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