I – L’istituzione del carcere di Via Tasso in Roma, 1943 – 1944
L’attuale Museo Storico di Via Tasso, Museo Storico della Liberazione in Roma, è stato allestito nei locali dell’edificio che, durante i mesi dell’occupazione tedesca di Roma (11 settembre 1943 – 4 giugno 1944), venne utilizzato come carcere dal Comando della Polizia di sicurezza tedesca (SIPO).
Quando i romani che hanno vissuto i giorni dell’occupazione nazista sentono pronunciare il nome “Via Tasso”, non possono non tornare indietro con la mente e col cuore a quel passato, e non provare ancora una volta un senso di disagio: “Via Tasso” era per tutti essenzialmente un simbolo, senza che altre aggiunte specificassero che cosa fosse, quale drammatico luogo rappresentasse.
A Roma vi erano altre sedi in cui perpetravano violenze, basterebbe pensare al carcere di Regina Coeli, alle famigerate pensioni “Oltremare”e “Jaccarino” di Koch, ai sotterranei di Palazzo Braschi della Banda Pardi e Pollastrini, fino alle tante caserme e ai tanto commissariati. Eppure talvolta, nei discorsi dei romani, così arguti nelle loro battute, su questi nomi era possibile una parola che non fosse di terrore e di angoscia. Su “Via Tasso”, no. Si evitava di pronunciarne il nome, e se qualche volta per necessità si doveva parlarne, si diceva piuttosto «là, a S. Giovanni », con un sottinteso inequivocabile e con la stessa istintiva paura che molti hanno delle parole, quando chiamano « brutto male » quello che dovrebbero semplicemente chiamare « cancro ». Forse perché quello era l’unico luogo che fosse totalmente in mano alle S.S. della Gestapo. Forse perché nessun fascista in divisa vi era mai entrato, quasi ad indicare che quello era il vero centro del potere nazista soltanto.
Si trattava di un grosso fabbricato, piuttosto anonimo, di recente costruzione, costituito da moltissimi appartamenti di tre stanze e servizi semplici ciascuno, destinati alla piccola borghesia romana. Il proprietario, principe Francesco Ruspoli, aveva affittato l’intero complesso edilizio all’Ambasciata germanica di Roma, che risiedeva nella vicina via Conte Rosso e che in un primo momento aveva qui sistemato il proprio ufficio culturale. Il palazzo spiccava nella zona per il suo chiaro colore giallo arancio, per una certa modernità di fattezze tra le pesanti costruzioni di stile umbertino e per uno spazio libero alla sua sinistra, poiché confinava con il vasto cortile interno del collegio di S. Maria. Sul retro la facciata era concava e costeggiata da un muro di cinta, alto quanto il primo paino, massiccio come spessore e distante meno di un metro dal muro maestro. Al di là del muro un giardino ricco di piante e una graziosa palazzina che più tardi avrebbe ospitato la mensa ufficiali e sottoufficiali delle S.S., alla quale si poteva peraltro accedere tramite una porticina, quasi sempre chiusa e vigilata da soldati armati.
In un secondo momento tutto il fabbricato era stato consegnato all’Oberstumfürer Herbert Kappler, che ufficialmente, come carica riconosciuta, era addetto dell’ambasciata del Reich a Roma. Di fatto, invece, divenne il capo effettivo della Gestapo e di tutte le S.S. nel Lazio, e non ci furono episodi determinanti o decisioni prese dalle autorità di occupazione che non lo vedessero protagonista in prima persona. Già prima dello scoppio della guerra egli si trovava in Italia, come ufficiale di collegamento con la polizia italiana e, prima di ricevere l’incarico a Roma, aveva diretto la Polizia tedesca nell’Italia meridionale.
La facciata principale dell’edificio aveva due ingressi, contrassegnati dai numeri 155 e 145. In realtà si trattava di un unico complesso, in quanto all’interno le due costruzioni originarie erano state rese comunicanti mediante l’apertura di due corridoi al I e III piano. Le strade adiacenti erano state tutte bloccate da cavalli di Frisia e da postazioni armate e, naturalmente, davanti all’edificio si poteva solo transitare a piedi e in fila indiana sul marciapiede opposto, sotto lo sguardo delle molte S.S. che imbracciavano mitra. Un’ampia parte del lato sinistro, rispetto a chi guarda, fu adibito a caserma della Gestapo, ad alloggi per ufficiali e sottoufficiali, a magazzini, a uffici e depositi vari; ciò che rimaneva a luogo di detenzione. Tutto il lato destro fu interamente convertito in carcere, salvo il piano terra e il primo piano che furono invece adibiti a fureria, ufficio matricola e soprattutto a locali dove si svolgevano gli interrogatori, i confronti e, molto spesso, le torture. Vicino alla fureria, in una stanza archivio, venivano raccolti tutti gli oggetti trovati addosso agli arrestati e che venivano poi catalogati su particolari schede, oggi nell’archivio del museo.
Le celle erano sistemate nelle camere degli appartamenti che si affacciavano a due a due sui vari pianerottoli e davano tutte su un ingresso centrale. Ogni alloggio comprendeva una camera più grande (4,85 x 5,95 metri), nella quale venivano rinchiusi fino a 12 o 14 prigionieri, 2 più piccole, una cucina e uno sgabuzzino cieco (largo 1,30 metri), che fungeva da cella di isolamento. Inoltre vi era un gabinetto.
Per assoluta sicurezza, per impedire che qualsiasi forma di messaggio potesse uscire dal carcere, le finestre erano state totalmente murate con dei mattoni pieni e in nessun modo poteva filtrare la luce del giorno. All’esterno erano state abbassate le persiane, fatte a saracinesca. Sopra le porte delle celle era stata praticata una apertura, protetta da una robusta inferriata, che dava sulla saletta d’ingresso. Che a sua volta riceveva un po’ d’aria dalla tromba delle scale. Quest’aria, anche in considerazione dl numero elevato dei detenuti (fino a 25-30), non poteva assolutamente essere sufficiente per sopravvivere e le stesse guardie, che pure sostavano all’interno per brevissimi periodi, non resistevano. Per questo furono effettuate nelle singole celle, escluso lo sgabuzzino, delle piccolissime aperture che, pur non comunicando direttamente con l’esterno, permettevano per mezzo di un tubo un minimo ricambio d’aria, anche se non poteva filtrare luce. Solo negli ultimi mesi di vita del carcere, nelle stanze più grandi, furono aperti dei finestrini (40 x 25 cm), naturalmente protetti da grate fittissime, a circa due metri e mezzo da terra, con sportelli all’interno e “bocche di lupo” all’esterno. Nelle celle non esisteva luce elettrica e l’unica forma di illuminazione proveniva da una lampadina che era posta al centro della saletta d’ingresso, attraverso le aperture praticate sopra le porte. Queste ultime erano di legno verniciate di verde scuro e permettevano e chi era di guardia di osservare l’interno della cella tramite un foro protetto da un dischetto girevole. L’unico arredamento delle celle, e non di tutte, era un tavolaccio alto circa 5 cm, largo un metro e lungo due. Nelle celle d’isolamento non c’era assolutamente nulla. I gabinetti erano privi di porta. Tutti gli appartamenti erano adibiti a carcere maschile, tranne alcune celle del IV piano riservate alle donne e una parte del V in cui era stata istituita una infermeria. In questi locali venivano verosimilmente ricoverati soltanto coloro che fossero eventualmente colpiti da qualche malattia infettiva, in attesa di essere smistati altrove. Quelli che invece spesso venivano tormentati negli interrogatori venivano riportati nelle rispettive celle perché fossero d’esempio per gli altri detenuti.
La vita quotidiana era molto elementare e semplice, apparentemente senza mai una novità.
Alle sette di mattina un imperioso « Aufstehen » era la sveglia data dalle guardie. Immediatamente quei pochi che avevano in dotazione una coperta dovevano ripiegarla. Quindi si andava al gabinetto, dove erano concessi pochissimi minuti per tutte le pulizie, compreso il lavaggio del barattolo o della ciotola che era l’unico recipiente concesso per mangiare e per bere. Dopo si doveva pulire la cella, a porte chiuse. Iniziava quindi l’attesa per l’unico pasto, che non veniva distribuito ad orario fisso e proveniva dal carcere di Regina Coeli. Si trattava quasi sempre di « una minestraccia fatta a base di acqua, torsi di cavolo spesso ancora crudi, qualche patata marcia, niente sale e niente condimento: venivano somministrate 2 pagnottelle di pane […], del peso nominale di 200 grammi ». Se qualcuno al momento della distribuzione si trovava sotto interrogatorio perdeva il pasto e molti prigionieri, specie quelli in cella di segregazione, sono stati privati del cibo per diversi giorni consecutivi, per fiaccarne maggiormente la resistenza. Verso sera era possibile andare al gabinetto e alle 20 tutte le porte venivano chiuse fino alle sette del mattino dopo. In nessun caso potevano essere aperte prima.
I detenuti non potevano né acquisire né ricevere viveri, libri, giornali, sigarette, né scrivere (cose che invece era permesso fare a Regina Coeli, anche nei bracci 3 e 4 controllati dai tedeschi). Potevano solo ricevere biancheria pulita, una volta alla settimana, controllata dalle S.S. per accertare che non vi fossero messaggi o altre cose nascoste. I familiari comunque riuscivano ad inviare degli scritti all’interno degli indumenti o su strisce di carta cucite nelle pieghe della biancheria. Nella primavera del 1944, quando la carenza di generi alimentari fu avvertita anche dalle truppe tedesche, fu consentito portare ai familiari, con il cambio della biancheria, un uovo sodo.
2 – Come l’edificio divenne Museo
Il 15 giugno 1950, la principessa Josepha Ruspoli in Brazzà donò allo Stato quattro degli appartamenti utilizzati come carcere (quello al piano terra, uno al primo piano, uno al secondo piano e due al terzo), affinché fossero destinati permanentemente ed esclusivamente a rappresentare il Museo storico della Liberazione in Roma, fortemente caldeggiato anche dal Ministero della Pubblica Istruzione e dalle associazioni partigiane. Gli appartamenti furono liberati dagli sfollati che li occupavano tra il 1953 e il 1954. Fu quindi costituito il Comitato per la realizzazione del Museo, che iniziò ad allestire le celle con cimeli e documenti del periodo della Resistenza, acquisisti in parte attraverso gli appelli alla cittadinanza. Il primo nucleo del Museo, negli appartamenti al piano terra ed al secondo piano, fu solennemente inaugurato il 4 giugno 1955 dal Presidente della Repubblica, alla presenza delle più alte autorità civili, politiche e militari, e di una folla di parenti di coloro che in quella prigione erano stati detenuti nonché di qualche sopravvissuto a quella « infame bolgia ». Nel 1957 venne allestito l’appartamento al terzo piano int. 8, e nel 2001, l’int. 9 dello stesso piano, musealizzato dopo un’ultima acquisizione per la quale l’Istituto vanta diritto di prelazione. Il Museo ha ottenuto il riconoscimento di Ente Pubblico, con la legge 14.4.1957 n. 277, sotto la Tutela del Ministero della Pubblica Istruzione. Infine è passato sotto la vigilanza del Ministero dei Beni e Attività Culturali, finanziatore assieme alla regione Lazio. Un’ulteriore non ingente entrata è generata da donazioni private effettuate tramite un bollettino postale disponibile al museo. Non vi è alcun punto vendita né una cassa per donazioni liquide.
3 – Gli ambienti del Museo. La visita guidata come percorso storico
Il Museo Storico della Liberazione oggi occupa dunque cinque appartamenti al n. civico 145 di Via Tasso a Roma. Un ulteriore appartamento al primo piano, compreso nel primitivo nucleo, è adibito ad alloggio dal custode dell’Istituto. Le celle di detenzione sono visibili soltanto in due dei quattro appartamenti, in quello al secondo piano e in uno dei due al piano superiore. Qui il museo ha mantenuto intatte tutte le caratteristiche dell’epoca e le prigioni si presentano così come furono trovate quando il carcere fu abbandonato dai Nazisti in fuga, ad eccezione del moderno impianto elettrico. E’ importante sottolineare due aspetti importanti: il carattere sostanzialmente anomalo di questa istituzione nell’ambito del panorama del museo storico attuale, e la natura sostanzialmente evocativa e strettamente territoriale che esso presenta. In realtà infatti, oltre ad essere assimilato ai memoriali delle vittime del Nazismo, più che un museo rappresenta una sorta di sacrario, civile e militare, e pertanto, come si vedrà, esso risponde ad un concetto museale che ben poco ha a che spartire attualmente con il moderno centro di documentazione, sia per quanto riguarda l’allestimento delle sale, che per quanto riguarda le attività che esso promuove o dovrebbe promuovere. Le stanze sono oggi dedicate alla memoria di coloro che vi furono detenuti, ed in particolare ricordano i momenti più drammatici e significativi della vicenda romana durante l’occupazione nazista, o circoscritti essenzialmente al solo territorio laziale, seppure forte risuoni l’eco dei contemporanei avvenimenti a livello nazionale ed europeo.
Ognuna delle sale/celle è intitolata, per così dire, ad un evento o ad un nome, ed il percorso di visita intende per questo ricostruire, assieme alle storie private dei molti detenuti, il susseguirsi degli avvenimenti. Questi, c’è da dire però, sono presentati più secondo un ordine di importanza o gravità, piuttosto che secondo l’ordine cronologico. Proseguendo con questa trattazione si darà un resoconto più preciso della disposizione delle sale secondo l’itinerario consigliato, basti adesso ricordare alcuni dei punti fondamentali. Alcuni nomi: i caduti delle Fosse Ardeatine e di Forte Bravetta (luogo ufficiale deputato alle esecuzioni capitali), i quali per buona parte passarono per queste tristi stanze; l’episodio della “Storta”, dove trovarono la morte gli ultimi prigionieri di Via Tasso mentre a poca distanza gli alleati già facevano il loro ingresso nella Capitale; le vicende della comunità ebraica di Roma; la stampa clandestina e quella di propaganda. Alcuni dei nomi più illustri che queste mura ricordano sono quelli del Colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, capo del Fronte Militare Clandestino ucciso alle Cave Ardeatine, Bruno Buozzi, noto sindacalista, fucilato alla “Storta”, i due religiosi Don Pietro Pappagallo e Don Giuseppe Morosini, conosciuti anche per la toccante sintesi che di loro ci offre il regista Roberto Rossellini nel film “Roma Città Aperta”, che numerosi altri spunti ha tratto da Via Tasso. Tanti, tanti altri. Sui muri dell’unica stanza priva di un rivestimento, la cella d’isolamento, incisi con la punta di un chiodo o addirittura con le unghie, i loro graffiti, segni, messaggi: avvertimenti, speranze, il tentativo di mantenere coscienza del tempo che passa, addii di tanti condannati a morte.
Improprio quindi parlare di “museo” in senso tradizionale, si tratta piuttosto di un sacrario, di un documento storico e di un monumento di estremo realismo, capace per questo di suscitare emozioni vive ed autentiche oltre a costituire una fonte di documentazione e studio diretta.
