Editoriali

Il neo-femminismo Islam-compatibile

Si dice spesso che la sinistra non abbia saputo adeguare le proprie categorie classiche alla nuova era politica nata dalle macerie delle ideologie del Novecento: i sindacati non sono stati più in grado di coagulare una qualche forma di protesta e di tutelare i diritti dei nuovi sfruttati; i partiti progressisti si stanno rendendo conto di non avere strumenti per interpretare i bisogni sociali di sicurezza e stabilità e per assorbire un malcontento che si sfoga non più a livello di classe ma di cultura, religione, etnia, perfino colore della pelle; economisti, intellettuali, pensatori vari non riescono a trattenere in casa nemmeno la storica battaglia contro la globalizzazione o per una globalizzazione dal volto umano, diventata il cavallo di battaglia di spinte localistiche e proposte protezionistiche. Insomma, un disastro.

Tuttavia forse a sinistra qualcosa si muove, e questo pare avvenire proprio in uno dei campi apparentemente meno credibili, più improbabili e paradossali, visti gli elementi che si trova a conciliare: il femminismo.
Gli elementi ovviamente sono il rispetto della donna e il rapporto con l’Islam.

La stessa lettera delle attrici italiane contro quella che sarebbe la diffusa prassi delle molestie nel maschilista mondo dello spettacolo offre qualche spunto interessante. È vero che riuscire a prendere seriamente in considerazione “Dissenso comune” è un’impresa estrema, ed effettivamente il valore dello scritto è pari a zero, ma a volerlo leggere sia tra le righe che nelle righe il testo rivela – consapevolmente o meno cambia poco – i ragionamenti e i meccanismi logici di quella che sta diventando non solo l’exit strategy del femminismo rispetto all’incartamento rappresentato dalla conciliazione dei due elementi apparentemente incompatibili sopra citati (la necessità di condannare il sessismo senza incappare nell’accusa di islamofobia), ma anche un’occasione di rinnovamento ideologico.

Apparentemente incompatibili ma forse dovremmo dire effettivamente incompatibili, stante il paradigma del femminismo classico; perfettamente compatibili, invece, alla luce del nuovo paradigma, quello neofemminista, quello che andiamo a ricavare non solo dalla lettera delle attrici ma dall’atteggiamento delle nuove femministe nella maggioranza dei Paesi occidentali.

Il ribaltamento logico di base, il punto veramente rivoluzionario e in grado di sbloccare il ragionamento, il nodo vero è rappresentato dal passaggio dal dovere di essere libere al diritto di non essere libere.




Questo cambio di prospettiva, necessario per rendere Islam-compatibile la tutela della donna (attraverso la legittimazione della condizione della donna nei paesi musulmani e del diritto di essere sottomesse), porta con sé delle conseguenze che rappresentano però non un prezzo da pagare ma un valore aggiunto nel quadro complessivo del neofemminismo: la battaglia infatti non è più universalistica, non si rivolge più alla tutela dei diritti della donna in generale ma alla tutela dei diritti delle donne vittime del maschilismo capitalista (in negativo, contro la società che mercifica il corpo della donna, evidentemente quella capitalista). Una riduzione del raggio d’azione dal generale al particolare che ottiene l’effetto non di indebolire ma di potenziare il rinnovato femminismo attraverso la riesumazione dell’anticapitalismo. E questo passaggio, facendo un ulteriore passo avanti, non solo rende, come detto, la struttura patriarcale delle società islamiche compatibile rispetto al nuovo schema di gioco ma, essendo l’esibizione e la mercificazione del corpo della donna la manifestazione principale del maschilismo capitalista che incarna il vero nemico, per converso il velo diventa strumento di resistenza, protezione, tutela.

Una possibilità, quindi, per conciliare femminismo e Islam, ma anche un’occasione di rinnovamento attraverso il necessario ripescaggio dei mai veramente superati concetti di antioccidentalismo, anticapitalismo, antiamericanismo, oggi più che mai rinvigorito dalla vittoria di Trump alle presidenziali americane. Questo spiega anche l’apparentemente assurdo silenzio delle femministe riguardo alla condizione della donna nei Paesi del Medio Oriente, l’assenza di qualunque forma di solidarietà nei confronti di quelle donne iraniane o curde che stanno combattendo la loro battaglia per la libertà di non portare il velo e per la laicizzazione della società, la progressiva islamizzazione delle accademie europee e americane, delle istituzioni nazionali e sovranazionali, delle organizzazioni non governative, degli stessi movimenti femministi.

Il neofemminismo quindi, perdendo la sua universalità, non solo diventa islam-compatibile ma si rinnova e rinforza.




Il costante, quasi ossessivo, richiamo al “sistema” da parte delle attrici nella loro lettera, al punto che la responsabilità del singolo finisce quasi per essere messa paradossalmente e pericolosamente in secondo piano rispetto a quella più ampia e più grave della società patriarcale e capitalista nel suo complesso, è, assieme a tutta la questione Weinstein, l’emblema del nuovo paradigma.

Le attrici, per tornare al nostro cortile, rappresentando in questo senso un emblema dell’esibizione del corpo (esiste una corrente del femminismo anni Sessanta che condannava l’intrinseco voyeurismo del cinema classico e dominante in quanto prodotto culturale dell’impostazione patriarcale della società), dimostrano, consapevoli o meno, di avere introiettato perfettamente l’allineamento astrale delle categorie classiche necessario per uscire dall’impasse prodotta dal contatto delle vecchie categorie con il nuovo contesto mondiale e di avere fatto loro il nuovo femminismo, quello secondo il quale al dovere di essere libere si sostituisce il diritto (per ora, poi forse diventerà il dovere) di non essere libere (cioè oggetto di mercificazione da parte della società capitalista).

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