Israele e Medio Oriente

Il Paradigma Umanitario-La Scelta di Hobson per Israele (parte prima) | di Martin Sherman

“Quando avrete eliminato l’impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, dovrà essere la verità”, Sherlock Holmes in Il Segno dei Quattro

La scelta di Hobson: Una situazione nella quale sembra che si possa scegliere tra diverse cose o azioni, ma in realtà c’è solo una cosa che si possa prendere o fare, Cambridge Dictionary

Mentre la disputa vecchia più di un secolo tra ebrei e arabi per il controllo della Terra Santa si approssima al suo terzo decennio post Oslo, quattro sono i principi paradigmatici emersi nel discorso pubblico in merito alla sua soluzione, e un altro per la sua “gestione” (per la sua perpetuazione). In questo articolo diviso in due parti stabilirò i meriti (o la loro assenza) di questi vari approcci, quelli che sottoscrivono una completa o parziale annessione di territorio lungo la Linea Verde pre-1967 e quelli che la rigettano.

Escludendo l’intervento divino (qualcosa sul quale soltanto i più pii di me potranno affidarsi come contributo politico ), di queste cinque opzioni (quattro più una), tutte eccetto una sono del tutto incompatibili con la sopravvivenza a lungo termine di Israele come stato nazione del popolo ebraico. Tutte eccetto una non affrontano adeguatamente sia gli imperativo geografici sia gli imperativi demografici che Israele deve affrontare onde evitare di diventare geograficamente indifendibile o demograficamente indifendibile, o entrambe le cose.

Israele come stato-nazione degli ebrei

E’, o dovrebbe essere, manifestamente auto-evidente che Israele per durare nel tempo come stato nazione degli ebrei, non possa (a) retrocedere a confini geografici/topografici che rendano impossibile mantenere una perdurante routine socio-economica nei maggiori centri commerciali del paese, e (b) permettere alla maggioranza ebraica di essere diminuita a tal modo da mettere in pericolo la natura ebraica dello stato. Di conseguenza, è nei termini della loro abilità di contendere con questi incontestabili imperativi che le proposte alternative per una soluzione/gestione del conflitto devono essere valutate come proposte politiche appropriate se Israele ha da mantenere il proprio status come stato-nazione del popolo ebraico.

Tenendo in mente questa breve chiarificazione, cominciamo l’analisi critica delle alternative menzionate che limiterò inizialmente alle proposte politiche le quali respingono una annessione parziale o completa dei territori, rinviando l’analisi di quelle che l’avallano per un articolo successivo.

Gestire il conflitto: Tosare il prato non impedirà all’erba di ricrescere

L’approccio gestionale del conflitto, in opposizione a un approccio risolutivo, è apparentemente la meno proattiva, la meno provocante, e la più pessimista. Essa si riflette largamente nel giudizio di Jared Kushner secondo il quale il confronto arabo-israeliano potrebbe non avere alcuna soluzione.

In un articolo scritto lo scorso agosto, ho sottolineato i gravi danni che questo approccio comporta, sottolineando come, negli ultimi due decenni e mezzo, l’abilità militare delle organizzazioni terroristiche si sia sviluppata molto al di là di quanto fosse immaginabile, e di come le posizioni politiche di Israele siano state drasticamente erose.

Quando Israele ha lasciato Gaza nel 2005, la gittata dei razzi palestinesi era al di sotto dei 5 km e il loro carico esplosivo era di circa 5 kg. Adesso i loro razzi hanno una gittata di oltre 100 km e testate di circa 100 kg. Similmente, quando Israele ha lasciato Gaza, solo la sua scarsa popolazione nella prossimità immediata era minacciata dai razzi. Adesso oltre cinque milioni di israeliani, molto oltre Tel Aviv, si trovano sotto la loro minaccia. Inoltre, le organizzazioni terroristiche hanno sfruttato periodi di calma per aumentare ulteriormente le loro infrastrutture e altre capacità, che erano appena concepibili un decennio fa, inclusa una massiccia impresa di tunnel sotterranei e lo sviluppo di forze navali, reparti d’attacco e capacità sottomarine.

Ma non è soltanto nella crescita esponenziale dell’abilità militare dei gruppi terroristici che l’impresa della gestione del conflitto si è rivelata un fallimento clamoroso. La stessa cosa può essere detta, di fatto a maggior ragione, relativamente all’inasprimento dei limiti politici che Israele deve affrontare

Probabilmente una delle indicazioni più drammatiche e allarmanti di quanto le posizioni di Israele siano state fatte arretrare negli ultimi due decenni è riflessa nelle posizioni espresse da Yitzhak Rabin nel suo ultimo discorso alla Knesset (5 ottobre 1995), un mese prima del suo assassinio. In esso chiedeva una ratifica parlamentare degli Accordi di Oslo, reputati all’epoca dalla maggioranza del pubblico israeliano come eccessivamente moderati e pericolosamente accondiscendenti.

Possono esserci pochi dubbi che se oggi, Netanyahu, dovesse fare propri letteralmente le prescrizioni di Rabin del 1995 per un accordo permanente con gli arabi-palestinesi nella “West Bank”, verrebbe considerato sprezzantemente, irrispettosamente e rabbiosamente come un “estremista sconsiderato”.

Ci vuole sicuramente poco acume analitico e un semplice pizzico di buonsenso per afferrare che qualsiasi possa essere l’entità reale della popolazione araba della Giudea e della Samaria, Israele non può mantenere una popolazione recalcitrante e irredentista in crescita in una condizione sospesa di rappresentanza politica. Sotto questo aspetto, dovrebbe essere ricordato che oggi, con la natura mutevole dell’ostilità araba, la maggiore minaccia per l’esistenza di Israele come stato-nazione ebraico non è più quella di respingere una invasione ma di resistere all’attrito, sia militare che politico.

Di conseguenza, nel respingere misure proattive decisive nell’affrontare una situazione che comporta una crescente minaccia e una libertà decrescente nel gestirla, “la gestione del conflitto” si è trasformata nella ricetta per evitare confronti immediati che possono essere vinti, dunque ingenerando il rischio di dovere contendere con situazioni future che non potranno essere vinte, o potranno esserlo solo a un costo rovinoso.

Due stati: Una mega Gaza sovrastante Tel Aviv?

Il modello politico il quale, per decenni, ha dominato il discorso su come risolvere il conflitto israelo-palestinese, è quello di una soluzione a due stati. Curiosamente, il sostegno a questa formula è sempre stato la condizione sine qua non per essere ammessi nella “compagnia della gente perbene” mentre l’opposizione a esso veniva e viene percepita come un segno di rozzezza e di ignoranza.

Quanto sia perverse questa situazione lo si può valutare dal fatto che non c’è alcuna ragione persuasiva per credere, e certamente nessuna è mai stata avanzata dai proponenti della soluzione dei due stati, che uno stato palestinese non sarebbe null’altro che una tirannia islamica, omofobica e misogina il cui segno distintivo sarebbe la discriminazione di genere, la persecuzione dei gay, l’intolleranza religiosa, l’oppressione politica dei dissidenti, e che nel giro di poco tempo non diventerebbe un bastione per il terrorismo islamico.

In fin dei conti, qualcuno potrebbe chiedere, per quale motive chiunque affermi di sostenere dei valori liberali, desidererebbe appoggiare il venire in essere di una entità del genere, la quale rappresenta chiaramente la totale smentita di quegli stessi valori avanzati per il suo venire in essere?!

I lettori si ricorderanno che fu a Gaza che vennero fatti i primi iniziali tentativi ottimistici di implementare l’idea dei due stati. Dunque, come si sono svolti gli eventi lì dovrebbe essere istruttivo su come si dovrebbero svolgere in Giudea e Samaria. Poiché, in assenza di un argomento stringente contrario, e come già detto, nessuno è mai stato presentato, c’è scarsa ragione di pensare che se Israele dovesse lasciare la “West Bank”, l’esito non sarebbe largamente simile a quello che ha fatto seguito all’evacuazione israeliana di Gaza. Di fatto, accantonando la speranza priva di alcuna base, non sussiste alcun fondamento né prova empirica sulla quale i proponenti della soluzione dei due stati possano basare la loro prognosi sul successo del loro credo politico. Di conseguenza, un prudente presupposto sul quale lavorare dovrebbe essere che ogni tentativo di implementare il principio dei due stati in Giudea e Samaria risulterebbe in una “mega Gaza” e le misure, simili a quelle richieste per proteggere la popolazione nel sud, sarebbero richieste anche sul confine a est di Israele.

Tuttavia, diversamente da Gaza, la quale confina con aree rurali scarsamente popolate, la “mega-Gaza” che quasi certamente emergerebbe in Giudea e Samaria, confinerebbe con le aree più popolose di Israele. Contrariamente a Gaza, la quale non ha alcuna superiorità topografica sull’adiacente territorio israeliano, la “mega Gaza” in Giudea e Samaria sovrasterebbe totalmente la adiacente megalopoli costiera, in cui sono localizzate la maggioranza delle infrastrutture vitali per Israele, sia civili che militari, dove risiede l’80% della sua popolazione civile e dove ha luogo l’80% della sua attività commerciale. Ma soprattutto più significativamente, diversamente da Gaza, che ha solo un fronte di 50 km con Israele, la “mega Gaza” in prospettiva in Giudea e Samaria avrebbe un fronte di almeno 500 km!

Perciò, ciò su cui la mente dei fautori dei due stati dovrebbe concentrarsi più che su qualsiasi altra cosa, è che, dopo avere evacuato Gaza, Israele è impegnata in quello che il Capo di Stato Maggiore, il Generale Gadi Eisencott, ha definito, “il maggiore progetto” mai intrapreso nella storia dell’IDF, un muro lungo l’intero confine di Gaza, non solo diversi livelli sopra il terreno, ma, in modo da potere contrastare la minaccia dei tunnel, anche diversi livelli sotto di esso! Ora, proviamo a immaginare un progetto dieci volte questa dimensione lungo una “mega Gaza” ubicata a est…

Prossimamente: Analizzare l’annessione

Come ho menzionato, nel prossimo articolo concentrerò l’attenzione su quegli approcci che appoggiano una completa o parziale annessione dei territori lungo la Linea Verde del 1967. Nell’analisi dimostrerò che senza un piano operazionale per ridurre drasticamente la presenza araba a est del fiume Giordano, ciò produrrà una libanizazzione di Israele, favorendo il venire in essere di una singola società così fratturata dal conflitto intra-etnico che non potrebbe essere difendibile come nazione-stato del popolo ebraico, mentre l’annessione produrrebbe la balcanizzazione di Israele, dividendo il territorio in enclavi autonome e disconnesse che sarebbero recalcitranti e antagoniste, creando una realtà ingovernabile per Israele.

Di conseguenza, per un processo di eliminazione, mostrerò che il Paradigma Umanitario, il quale sostiene un’emigrazione finanziata degli arabi residenti in Giudea e Samaria ed eventualmente di quelli residenti a Gaza, è l’unico modello politico coerente con la sopravvivenza a lungo termine di Israele come stato-nazione degli ebrei, e quindi, per coloro i quali sono impegnati alla preservazione dell’ideale sionista, è la scelta di Hobson.

Traduzione dall’originale inglese di Niram Ferretti

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