Diritto e geopolitica

La Corte Penale Internazionale e il “caso” Israele

Nei giorni scorsi è avvenuto un fatto di tutto rilievo, in merito al “caso” di Israele presso la Corte Penale Internazionale.

In attesa che i giudici (tre) della camera pre processuale si riuniscano per decidere se la Corte Penale ha giurisdizione in merito al caso aperto contro Israele dal giudice Fatou Bensouda, per conto dello “Stato di Palestina”, in merito a presunti crimini di guerra in Giudea, Samaria e Gaza, si stà delineando un interessante schieramento di posizioni. Prima di entrare nei dettagli degli ultimi sviluppi del caso, è opportuno ricordare che Israele non è tra gli Stati firmatari del Trattato di Roma del 1998 con il quale si istituiva la Corte Penale Internazionale (i paesi che vi hanno aderito sono 122 su 193 riconosciuti dall’ONU, non vi hanno aderito tra gli altri gli USA e la Russia). Lo Stato ebraico, quindi, ha deciso non presentare nessuna tesi difensiva perché non riconosce nè l’autorità nè le competenze di questo tribunale.

Va notato che il giudice Fatou Bensouda, prima di aprire la procedura vera e propria per crimini di guerra, ha richiesto il parere della Camera pre processuale per stabilire se “lo Stato di Palestina”, che ha intentato causa a Israele, possieda tutti i requisiti statuali previsti per poter essere considerato uno Stato a pieno titolo, dando piena giurisdizione alla Corte Penale per l’apertura del procedimento.

A poche settimane dalla riunione dei giudici della Camera pre processuale, diversi paesi che fanno parte della Corte Penale, non in qualità di paesi coinvolti direttamente nel procedimento ma come amici curiae hanno voluto depositare un loro parere per fornire ulteriori elementi probatori ai giudici che dovranno esaminare il caso. Questa è una prassi consolidata presso la Corte Penale Internazionale. Questi paesi sono: Germania, Repubblica Ceca, Brasile, Austria, Australia, Ungheria e Uganda. La loro posizione è chiara: “la Palestina” non può in nessun modo essere definito uno Stato secondo il diritto internazionale mancando ad esso i criteri giuridici basilari. E’ da notare che tra questi paesi, il Brasile e l’Ungheria hanno riconosciuto politicamente lo “Stato di Palestina” ma per loro stessa ammissione di tratta di un atto squisitamente politico che non ha fondamento nel diritto internazionale. Oltre a loro numerosi giuristi si sono espressi allo stesso modo. In tutte le tesi sottoposte ai giudici, da parte di questi Stati e da parte dei giuristi, è evidenziato in modo inequivocabile che lo “Stato di Palestina” – che è membro anche se non si capisce a che titolo della Corte –non possiede nessun requisito minimo richiesto dal diritto internazionale per potere essere considerato uno Stato a tutti gli effetti: non ha i requisiti richiesti dalla Convenzione di Montevideo, non è uno Stato a pieno diritto dell’ONU ma solo uno Stato osservatore, non ha i requisiti richiesti dall’articolo 12 dello Statuto di Roma, non rispetta gli Accordi di Oslo che ha sottoscritto con Israele che gli impedisce di utilizzare i forum internazionali per delegittimare lo Stato ebraico. Di fronte a tutte queste evidenze si capisce, chiaramente, come lo “Stato di Palestina” sia un artificio politico privo di qualsivoglia base giuridica.

Ad avvalorare la tesi contraria, cioè che lo “Stato di Palestina” ha in realtà i requisiti legali per essere considerato come uno Stato a tutti gli effetti non ha provveduto nessuno Stato membro della Corte Penale ma solo due organizzazioni internazionali: la Lega Araba e l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (delle quali molti membri non fanno parte della Corte stessa…). Le loro tesi difensive si sono limitate ad indicare come i palestinesi sarebbero stati vittime di “torti” a partire dalla dichiarazione Balfour e dalla decisione ONU di partizione del Mandato di Palestina del 1947. E’ da sottolineare che all’epoca dei fatti appena menzionati, gli stessi arabi abitanti del Mandato non si definissero “palestinesi” non avendo nessuna identità nazionale la quale sarebbe stata formalizzata a partire dalla fine degli anni Sessanta e riconosciuta in sede internazionale a partire dai primi anni Settanta.

Questo processo di retrodatazione dei fatti, da parte delle due organizzazioni islamiche, è prassi abbastanza comune anche in sede ONU: basta leggersi numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale, dell’UNESCO e la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza per capire come tale modalità sia diventata la regola quando si tratta di Israele: una vera e propria alterazione della storia.

Oltre alle organizzazioni islamiche, alcuni giuristi hanno proposto tesi a favore della validità legale dello “Stato di Palestina”. Tra di essi si distingue senza dubbio il professore canadese William Schabas. Già noto alle cronache del Medio Oriente per essere stato membro della commissione di inchiesta dell’ONU sulla guerra di Gaza del 2014, salvo poi doversi dimettere quando è emerso che era sul libro paga dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La tesi di Schabas è davvero interessante: lo “Stato di Palestina” sarebbe uno Stato, a prescindere dai requisiti giuridici necessari, perché è membro della Corte Penale. Inoltre, anche se è uno Stato privo di confini certi e di un territorio del quale possiede la piena giurisdizione, questi “aspetti” non “devono impedire” alla Corte di esercitare la propria giurisdizione. Senza però specificare in quali territori la Corte debba esercitare la sua giurisdizione se i territori in questione non sono a pieno titolo dello “Stato palestinese”.

Un altro difensore della “causa palestinese” è l’altrettanto noto Richard Falk (per molti anni speciale relatore ONU sui diritti umani nei territori palestinesi), la cui tesi si basa sul fatto che lo “Stato di Palestina” è riconosciuto da 130 paesi a prescindere dal fatto che abbia i requisiti legali o no. Secondo Falk lo Stato è “un concetto complesso ai sensi del diritto internazionale”, oltre al fatto che, sempre parole sue, “il rifiuto di riconoscere lo Stato di Palestina come uno Stato ai fini dello Statuto di Roma porterebbe a certe assurdità legali nel quadro dello Statuto”. E’ superfluo osservare che nessuna convenzione, trattato o regola internazionale è mai citata per sostenere le sue opinioni.

Ora non rimane che aspettare la decisione dei tre giudici e sparare che ancora una volta non prevalga la politica a discapito del diritto e della logica.

 

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