Antisemitismo, Antisionismo e Debunking

La parabola finale di un antisemita

Nel 1982 Abu Mazen presenta presso il Collegio Orientale di Mosca la sua tesi negazionista dal titolo emblematico, La connessione tra nazismo e sionismo 1933-1945, nella quale il futuro presidente dell’Autorità Palestinese sottostimava le vittime della Shoah a poche centinaia di migliaia, ribadendo uno dei cavalli di battaglia della propaganda araba, che lo sterminio (per altro a suo dire ampiamente manipolato) degli ebrei sarebbe stata la causa, o meglio il pretesto, per il sorgere dello Stato ebraico. “La tesi araba più comunemente condivisa fa del genocidio l’autentica matrice dello Stato ebraico”, scrive Georges Bensoussan, “Così facendo essa rinnova il mito del complotto (europeo, occidentale, americano o imperialista)”.

Ieri l’anziano leader abusivo dell’Autorità Palestinese, durante una delle rare convocazioni dell’ufficio del Consiglio Nazionale Palestinese, ha ripresentato sulla scena il consolidato repertorio dell’antisemitismo tardo novecentesco, quello che vuole gli ebrei collusi con i nazisti per appropriarsi di terra ancestralmente araba. D’altronde non fu Alfred Rosenberg nel 1921 con il suo Der staatsfeindliche Zionismus (Sionismo, nemico dello Stato) a sostenere che gli ebrei erano in Palestina per rubare la terra agli arabi? Abu Mazen, di suo ha aggiunto che la responsabilità della Shoah non sarebbe dei nazisti ma degli ebrei stessi che l’avrebbero provocata. E’ questo un topos inossidabile, un vero e proprio archetipo della più infame propaganda antiebraica: la colpevolizzazione delle vittime.

Ma non c’è da meravigliarsi, il “moderato” leader di Fatah non si è mai fatto mancare l’occasione di esibire ciò che pensa realmente, come quando, nel 2016, a Bruxelles applaudito dai presenti affermò che gli era giunta voce del progetto israeliano di volere avvelenare i pozzi della Cisgiordania nella parte a maggioranza palestinese, riprendendo tale e quale una delle accuse classiche dei libelli antisemiti medioevali.

Oggi, alla fine della sua parabola politica, ormai condannato all’irrilevanza e costretto dall’Amministrazione Trump con le spalle al muro, Abu Mazen non finge più, è allo stato brado, può esibire senza alcuna vergogna la natura del suo odio condensato per Israele, che è innanzitutto puro odio islamico per gli ebrei, gli antichi “dhimmi” che hanno osato fondare un loro stato in una terra considerata eternamente appartenente all’Umma islamica come recita lo statuto di Hamas.




La verità, per altro ben nota, ma frequentemente e ipocritamente messa da parte, è che al di là delle costanti lotte tribali tra clan che hanno sempre connotato il mondo arabo, su Israele e sugli ebrei, specialmente su quelli che si trovano in Palestina, la convergenza delle idee è netta. Fatah e Hamas sono sostanzialmente intercambiabili quando si giunge al punto centrale, e non bisogna farsi ingannare dal rivestimento religioso del linguaggio che connota il gruppo integralista che controlla Gaza rispetto a quello più laico esibito da Fatah. Sono il recto e il verso della medesima medaglia.

L’impotenza di Abu Mazen è nel suo declino, nella forsennata e intossicata esibizione dei fantasmi e delle ossessioni antisemite che lo hanno sempre accompagnato lungo la sua carriera così come, prima di lui, avevano accompagnato il Mufti di Gerusalemme Amin Al Husseini e Yasser Arafat. Lo riconnettono allo stesso Adolf Hitler e a Joseph Goebbels, i quali, ormai chiusi nel bunker di Berlino, poco prima della fine continuavano ad attribuire la sconfitta della Germania a un immaginario complotto ebraico.

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