Il moto di rivolta nei confronti degli ebrei, e non soltanto dello Stato di Israele, al quale stiamo assistendo oggi nelle società occidentali è qualcosa di patologico, partorito dalla cancrena dell’antisemitismo che ha alimentato per millenni persecuzioni, ostracismo e razzismo. In qualsiasi contesto sociale e in tutte le realtà strutturate anche secondo sistemi democratici, la ricerca del capro espiatorio capace di liberare dalle forze di un male occulto si sono sempre rivolte con esiti drammatici e demoniaci, per brutalità, nei confronti di dissidenti, diversi, comunità ed etnie che non appartenevano talvolta direttamente e storicamente ai contesti in cui vivevano.
Affermare questo appare lapalissiano e scontato alla luce di quanto la storia avrebbe dovuto farci conoscere: lo è molto meno se gli accadimenti antisemiti in qualsiasi settore della società si sono oggi propagati in una molteplicità di azioni violente ai limiti della sopportabilità. È dunque importante, a questo punto, per procedere con la comprensione di quanto sta avvenendo e delle modalità con cui affrontare la questione, ricordare quanto venne affermato da due uomini fra i più eminenti intellettuali del Novecento, circa la possibilità/impossibilità di «fare poesia» dopo l’Olocausto perpetrato dai nazisti. Sfuggendo a qualsiasi semplificazione, basterà ricordare quanto asserito da Adorno nel 1949: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico». Primo Levi, interrogato proprio sull’affermazione di Adorno, risponde: «Io credo che si possa fare poesia dopo Auschwitz, ma non si possa fare poesia dimenticando Auschwitz. Una poesia oggi di tipo decadente, di tipo intimistico, di tipo sentimentale, non è che sia proibita, però suona stonata». Due pensieri solo apparentemente in contrasto tra loro, anche perché l’aggettivo «barbarico» utilizzato da Adorno impone ed esige una interpretazione piuttosto chiara nel suo etimo più profondo. Il significato da ricondurre alla parola «barbaro» è in questo caso da ricercare nella mancanza di razionalità e consapevolezza in relazione a una tragedia così penetrante nell’etica e nel pensiero umano quale il genocidio degli ebrei è stato. Scrivere poesie non significa però essere inconsapevoli del reale e del tragico, ma raccontarli con una dose di asimmetrica dolcezza e profondità estrema alle quali, in relazione a un dolore così profondo, non avremmo potuto più fare riferimento. Dunque la lettura può essere posta anche come un avvertimento all’uso della poesia che «non può non tener conto» di quanto accaduto. In base soprattutto a questa ipotesi è possibile dedurre alcune modalità di risposta all’antisemitismo attuale, che non è rinato ma ha subito un verosimile quanto spregevole risveglio.
Immaginare una società senza poesia significa ricondurla a uno stato di morte perenne, di agonia, di incapacità di riportare in vita valori di umanesimo senza i quali non saremmo più in grado di sopravvivere. Quella di Adorno non è stata solo un’iperbole, e neppure la conditio sine qua non dettata da Primo Levi deve essere superata con una dose di conveniente superficialità.
Riportare la poesia fra gli uomini era un’impresa pressoché impossibile, se non per opera di un altro ebreo, in particolare, fra gli altri, poeta sublime, conoscitore degli arcani del mondo e della sua tragica essenza, e per questo folle: Paul Celan. Lo ha fatto con Todesfuge, ovvero Fuga di morte, pubblicata nel 1948. Il momento in cui il poeta l’ha scritta è determinante per una serie di motivi. Non è questo semplicemente un tentativo di resistenza alla legittima «sentenza» di Adorno, ma un seme di speranza e rinascita seppur nella perenne drammaticità delle parole del testo. Celan ha riportato la poesia fra gli uomini, questa è già una speranza. La banalità del male è la stessa di quanti si rifiutano di servire al tavolo commensali ebrei, di coloro che tracciano svastiche sulle pareti delle dimore degli ebrei, di quelli che scacciano con ululati durante le manifestazioni per la pace sulle strade delle città famiglie di ebrei, che linciano sui social intere comunità di ebrei, che perpetrano ogni tipo di violenza nei confronti degli ebrei nelle università, nei luoghi d’arte, nei luoghi sacri, nei consessi diplomatici, nelle manifestazioni sportive, nelle fiere: siamo certi che prima o poi queste parole e queste azioni diventeranno pietre.
Con le pietre però si costruiscono fonti e da quell’acqua la poesia assolve alla sua funzione.