Storia di Israele e dell’Ebraismo

La rivolta del ghetto di Varsavia: una storia di epico coraggio

Ha ispirato film e romanzi ed è diventata il simbolo di un’epica resistenza: la rivolta nel ghetto di Varsavia è ancora oggi una delle pagine più sanguinose e allo stesso tempo valorose della Seconda Guerra Mondiale giacché rappresenta il primo concreto tentativo di ribellione armata degli ebrei dall’inizio della guerra.

Proprio in questi giorni ricorre l’anniversario di quella che fu una lotta di cittadini resi schiavi e destinati alla soluzione finale, uomini e donne che, non avendo più nulla da perdere, decisero di sacrificare tutto in una lotta contro il proprio carnefice. Furono pochissimi a salvarsi. Alcuni di loro, tra i quali Icchak Cukierman, conosciuto con il nome di battaglia di “Antek”, uno dei leader della rivolta e vicecomandante del Commando che diede inizio agli scontri, dopo la guerra si trasferirono in Israele, presso il kibbutz “dei combattenti” Lohamey ha-Geta’ot fondato nel 1948 nella Galilea occidentale.

La storia dell’insurrezione è una storia di sangue, di resistenza e di coraggio. La rivolta avvenne dal 19 aprile al 16 maggio 1943, da parte degli ebrei imprigionati nel ghetto, nei confronti delle truppe naziste occupanti la capitale polacca. Dai primi mesi del 1940, i tedeschi iniziarono a concentrare in Polonia oltre tre milioni di ebrei in affollatissimi ghetti collocati in numerose città. Per fare un esempio, il ghetto di Varsavia arrivò a contenere quasi mezzo milione di ebrei con un tasso di mortalità che raggiungeva la cifra di 2.000 morti al mese. Nel 1940 in queste condizioni disumane perse la vita il 10% dei reclusi.

Per tutti, il ghetto rappresentava un dormitorio degli orrori dal quale si veniva poi trasferiti nei campi di lavoro e in seguito nei luoghi di sterminio. Dal gennaio del 1942, iniziò, infatti, la pianificazione della soluzione finale con l’attivazione dei campi di sterminio e i trasferimenti anche dal ghetto di Varsavia.

Nelle prime settimane del 1943, poco prima della rivolta, erano circa 70.000 gli ebrei del ghetto utilizzati come operai. Tra questi in quei giorni si era diffusa l’impressione che le deportazioni erano ormai cessate, proprio grazie alla loro funzione come forza lavoro nello sforzo bellico. Per questo motivo la decisione del 18 gennaio di trasferire nei campi di sterminio 8.000 operai ebrei fu quella miccia che diede fuoco alla rabbia facendola esplodere in sommossa.

Iniziò tutto il 19 aprile. Mentre la colonna dei deportati, scortata dai nazisti, percorreva le vie del ghetto, alcuni componenti del Commando ŻOB, comandati da Mordechaj Anielewicz, aprirono il fuoco contro i tedeschi. Seguirono quattro giorni di guerriglia e sparatorie durante le quali 1.171 ebrei furono uccisi, ma solo 650 degli 8.000 previsti furono deportati. Il risultato fu, per ben due mesi, la fine delle deportazioni e dell’occupazione tedesca del ghetto. Un esito straordinario se pensiamo che fu una resistenza portata avanti in larga parte da “non combattenti” che avevano alle spalle una lunga storia di lavoro forzato e soprusi di ogni genere.

Fin da subito gli insorti si dedicarono con grande abilità a fortificare il quartiere, costruendo bunker, trincee e vie di fuga.

La reazione nazista non tardò ad arrivare. Himmler ordinò di distruggere il Ghetto dopo aver trasferito le installazioni produttive insieme agli operai valutati utili allo scopo. Si tentò di convincere gli ebrei a uscire spontaneamente per salvarsi la vita e trasferirsi in altri ghetti e lavorare in altre attività produttive, ma il tentativo fu vano.

Anche la prima operazione di ripresa militare dell’area fu un fallimento. Il battaglione del Generale Jürgen Stroop, forte di 2000 soldati, carri armati e cannoni, giunto dai Balcani con l’ordine di sterminare il ghetto e liquidare facilmente la controversia, dovette presto rassegnarsi ad una lotta ben più lunga che fu solo l’inizio di una battaglia destinata a durare per settimane.

Furono le ingegnose strategie dei ribelli a rimandare la riconquista tedesca del ghetto. Gli insorti prepararono trappole e attraverso tunnel sotterranei annientavano le milizie naziste indirizzandole in alcuni edifici per poi colpirle con un fuoco incrociato. Solo in seguito i tedeschi reagirono a queste tattiche facendo uso di artiglieria pesante, lanciafiamme e gas asfissianti inondando i tunnel e facendo saltare in aria interi edifici.

Solo il 16 maggio ci fu la capitolazione della rivolta e Himmler, come ritorsione, ordinò di radere al suolo la bellissima sinagoga grande di Varsavia, costruita nel 1876-78 in stile neoclassico, autentico simbolo della comunità ebraica polacca e una delle più grandi d’Europa.

Gli ebrei che riuscirono a salvarsi rimasero nascosti nei covi sotterranei e nelle fognature per intere settimane proseguendo eroicamente di tanto in tanto a combattere e a cercare vie di fuga fino al 23 settembre, quando l’ultimo baluardo di rivoltosi, armi in pugno, riuscì nell’impresa epica di fuggire dal ghetto.

Il bilancio finale fu terribile. Furono annientati 13.929 ebrei, 7.000 dei quali furono eliminati nel corso della Gross-Aktion del quartiere, mentre nelle operazioni di guerra contro il ghetto persero la vita circa 6.000 ebrei. I caduti nazisti ufficialmente dichiarati furono invece 110, anche se fonti della resistenza parlano di 1000 vittime.

Dopo la fine della rivolta e la riconquista del ghetto, i tedeschi distrussero la maggior parte delle abitazioni del quartiere e utilizzarono l’area come luogo di esecuzione dei ribelli e, in seguito, per ospitare il campo di concentramento di Varsavia “KL Warschau”.

La rivolta nel ghetto di Varsavia è la vicenda di uno scontro in cui, nonostante la sproporzione abissale dei mezzi, gli insorti riuscirono a tenere in scacco uno degli eserciti più devastanti della storia. Questo fu la prova di come l’abilità e la forza morale possono competere con la forza bruta di un vero esercito addestrato ed equipaggiato.

Oggi, questa epica vicenda fa parte della memoria storica del popolo ebraico e dello stato di Israele, costruito anche sul sacrificio dei sopravvissuti e abitato dai loro discendenti che continuano a dare prova della stessa forza morale. Come il caso di Roni Zuckerman, nipote di “Antek” Icchak Cukierman, diventata nel 2001 la prima donna pilota di caccia nella storia dell’Air Force israeliana.

Clicca per commentare

Devi accedere per inserire un commento. Login

Rispondi

Torna Su