Editoriali

La verità sugli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria

Dal nostro inviato in Israele – Niram Ferretti

Ad Alefei Menashe, Peduel, in Giudea e Samaria, ovvero nella cosiddetta West Bank, a contemplare con un appassionato e lucido amico il paesaggio, l’orizzonte collinoso e aspro che, malgrado la foschia, permette di intravedere le sagome nette dei grattacieli futuristi di Tel Aviv.

Intorno villaggi arabi disseminati. Comprendere che qui, nel cuore della terra biblica, molti degli gli insediamenti, i tanto vituperati insediamenti, sono vedette strategicamente posizionate a salvaguardia della sicurezza di Israele. Cosa sarebbero questi luoghi, smobilitati dalla presenza ebraica e consegnati agli arabi, se non la piattaforma di lancio per potenziali razzi contro la città costiera del high tech, della movida isreliana e della cosiddetta intellighenzia che disprezza gli abitanti che ci vivono, i “coloni”, rappresentati caricaturalmente, tutti indistintamente, come fanatici religiosi? Quella stessa intellighenzia cosmopolita e progressista che, nonostante più di un secolo di smentite siglate dal sangue israeliano, continua a volere regalare ai nemici persistenti di Israele un loro stato, convinti che in questo modo, finalmente, se ne staranno belli e buoni, e la pace sarà raggiunta. Quella stessa pace che, Mordechai Kedar spiega, null’altro è per la mentalità araba se non una momentanea tregua fintanto che il nemico è troppo forte, in attesa di colpirlo appena avrà abbassato la guardia e si renderà più vulnerabile, come fece Maometto quando attacco i Meccani di sorpresa solo due anni dopo avere siglato con loro la pace decennale di Hudaybiyyah.

L’attesa necessita di pazienza e astuzia, virtù strategiche essenziali che non ebbe il lord of terror, Yasser Arafat. Se, dopo gli accordi di Oslo, regalatogli da un uomo ammalato di protagonismo e da un un altro debole e riluttante che si era lasciato trascinare dentro nella trappola, invece di inaugurare l’orgia di sangue della Seconda Intifada avesse fatto come Maometto e si fosse mostrato mite e remissivo, oggi Alfei Menashe e Peduel, insieme ad altri insediamenti, non esisterebbero più. Le colline intorno a Tel Aviv sarebbero pullulanti di arabi pronti ad aspettare l’ordine, che immancabilmente arriverebbe, di lanciare i primi razzi, come è avvenuto a Gaza, quando nel 2005, Ariel Sharon decise di evacuarla dalla presenza ebraica.

Fu Arafat, paradossalmemte, la sua impazienza, a impedire che la decisione autolesionista di Shimon Peres e Isaac Rabin, permettesse ai palestinesi di avere quello stato, che nulla altro è se non un enorme cavallo di Troia dal cui ventre, al momento propizio, fare uscire tanti guerrieri armati.

Si tratta della grande, disastrosa, autoillusione della sinistra fondata sul presupposto che gli arabi siano interlocutori afidabili, che anche loro, dopotutto, vogliano la pace, la stessa intesa dagli ebrei, la coesistenza pacifica e armoniosa, riassumibile nello slogan ammaliante e fraudolento, “Loro là, noi qui “.

Ma le mappe della Palestina, sia quelle di Hamas che di Fatah, raccontano un’altra storia. Israele non vi compare in nessun punto. Si tratta, infatti, di un incidente di percorso, da togliere di mezzo di avanzamento in avanzamento.

Ad Alfei Menashe e Peduel, la vita ebraica, radicata e ritornata lì, dentro la sua stessa storia millenaria, rappresenta un argine concreto e reale (bisogna sempre toccarla la realtà) alle proiezioni e ai sogni di politici e intellettuali pronti a fabbricare la corda con cui verrebbero impiccati.

 

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