Interviste

Perché in Israele ha vinto Netanyahu e ha perso Obama. Intervista a Ugo Volli

volli1-450x450Ugo Volli, professore ordinario di Semiotica del testo all’Università di Torino, ha al suo attivo oltre 200 pubblicazioni scientifiche e una quindicina di libri, tra cui “Laboratorio di semiotica” (Laterza 2005), “Lezioni di filosofia della comunicazione” (Laterza 2008), “Parole in gioco” (Stampatori 2009), “Domande alla Torah” (L’Epos 2012). Scrive di ebraismo e Medio Oriente su Pagine ebraiche, Moked, Informazione Corretta. In qualità di attento osservatore sulle questioni mediorientali e israeliane, gli abbiamo chiesto il suo punto di vista sul risultato elettorale in Israele.
Ugo Volli, probabilmente per la prima volta il mondo intero si è interessato alle elezioni israeliane, anche a causa di una massiccia mobilitazione degli organi di informazione. Come interpreta questa attenzione?
In generale c’è da tempo da parte dei media occidentali su quel che succede in Israele un’attenzione sproporzionata e un atteggiamento più di propaganda che di informazione. Questo è accaduto anche per le ultime elezioni dove la maggior parte dei media occidentali si è lanciata in una campagna di diffamazione e di distruzione simbolica di Netanyahu come se prendesse posizione in una campagna elettorale del proprio paese. Per questa quasi unanimità i media si sono anche illusi di vedere una realtà che corrispondesse alla loro propaganda. Salvo dover prendere atto che gli israeliani avevano idee assai diverse.

Oltre all’interessamento, si può dire che ci sia stata una certa pressione. Inutile negare che i media occidentali abbiano tirato la volata a “Campo Sionista” di Herzog-Livni. Ma il popolo israeliano ha fatto di testa sua. Una ulteriore dimostrazione di libertà, soprattutto dai condizionamenti esterni?
Gli israeliani hanno vivo il ricordo della Shoà, sono circondati da nemici violenti e insidiosi, vivono nella parte del mondo più destabilizzata e pericolosa, anche grazie agli errori della politica internazionale di Obama. Dato che non vogliono suicidarsi, è chiaro che non hanno seguito i consigli interessati di chi se ne sta a migliaia di chilometri ed ha lo sguardo offuscato dall’ideologia, ma hanno privilegiato il solo leader capace di guidare lo stato in circostanze così difficili.

Cosa sarebbe cambiato, a Suo avviso, se il centro-sinistra avesse vinto le elezioni? Davvero Tzipi Livni sarebbe stata più “morbida” di Netanyahu nel rapportarsi con la questione palestinese e il terrorismo?
Se avesse vinto la sinistra, essa sarebbe stata inesperta, priva di principi saldi e ricattabile ideologicamente. Soprattutto sarebbe stata in debito della sua vittoria ai soldi, agli uomini, all’appoggio di stampa, alle manovre politiche dell’amministrazione Obama e avrebbe dovuto piegarsi non agli interessi nazionali americani, che visti rettamente non sono molto diversi da quelli israeliani, ma all’ideologia di estrema sinistra dell’amministrazione Obama e alla sua politica confusa e contraddittoria. Questo avrebbe messo gravemente e forse irrimediabilmente in pericolo la sicurezza di Israele.

Al di là di Tzipi Livni, che tanto di sinistra non è, qui in Italia ci ricordiamo di una sinistra israeliana forte, inflessibile e decisa a tutelare gli interessi nazionali negli anni ’90, senza scomodare il passato di Ben Gurion e Golda Meir. Oggi c’è ancora la sinistra in Israele?
La sinistra israeliana è stata decisa a difendere la sicurezza di Israele solo fino agli anni Settanta, cioè fino a Golda Meir e al primo Rabin. Poi, dopo che la destra ha per la prima volta conquistato il governo con Begin, Rabin si è circondato di estremisti di sinistra più o meno camuffati come Avraham Burg e Yossi Beilin e ha combinato il disastro degli accordi di Oslo, continuato dopo la sua morte da Peres. Da quando sono emerse le conseguenze micidiali di quell’accordo e degli altri ritiri da loro appoggiati, l’elettorato israeliano non ha più avuto fiducia nella sinistra, che negli ultimi 40 anni ne ha governati solo circa 6.

Passiamo al vincitore. Benjamin Netanyahu. Il popolo si è espresso, acclamandolo in piazza come un Re e rafforzando la sua leadership alle urne. Ma cosa si aspetta da Netanyahu?
Netanyahu non è stato acclamato come “re”, era successo piuttosto a Begin. È stato semplicemente visto come l’unico sufficientemente flessibile e fermo per resistere a un’offensiva contro la vita di Israele che proviene da quelli che una volta erano i principali alleati di Israele e con cui ancora gli israeliani condividono principi politici e stile di vita: l’Europa e gli Stati Uniti. Mi aspetto che Netanyahu sappia resistere alle pressioni quando mettono in pericolo l’esistenza di Israele, che sappia cedere su questioni meno vitali per sventare le manovre, che rafforzi la difesa militare in un angolo di mondo sempre più pericoloso. E che affronti anche alcuni problemi sociali interni, come il carovita e la questione degli alloggi. Mi aspetto infine che sia in grado di spezzare il quasi monopolio che la sinistra ancora esercita sul sistema culturale e sull’alta burocrazia statale.

Oltre a Campo Sionista, ad uscire sconfitto dalla elezioni israeliane è… Obama. Può spiegarci meglio gli attuali rapporti tra Usa e Israele? E soprattutto come prevede che si comporterà Obama nei suoi ultimi due anni di presidenza Usa, anche alla luce dei risultati elettorali in Israele?
Obama ha certamente perso delle elezioni cui aveva il dovere istituzionale di non partecipare. Nel corso degli anni è emersa con sempre maggiore chiarezza una sua posizione anti-israeliana, dovuto al suo background terzomondista e islamista: per molti anni nella sua infanzia ha frequentato scuole islamiche. Obama è un nemico non solo di Israele ma anche dell’Occidente come si è storicamente sviluppato e quindi del suo stesso paese. Il paradosso di un presidente degli Stati Uniti sostanzialmente antiamericano, che ogni tanto sembra esitante perché deve mascherare un po’ la sua azione e il suo pensiero, ma ha come obiettivo quello di distruggere l’egemonia americana nel mondo, ha provocato danni immensi non solo a Israele, ma agli Stati Uniti, e anche all’Europa e alla pace del mondo. Stragi e danni immensi si potevano evitare se al suo posto vi fosse stato un presidente normale.

La butto lì: forse per Israele sarebbe meglio che vincesse un candidato repubblicano alle prossime presidenziali americane?
Per fortuna la presidenza Obama è agli sgoccioli, anche se sono sgoccioli lunghi. Quello che appare il candidato americano favorito oggi, la signora Clinton, ha però moltissime ambiguità e, per così dire, scheletri negli armadi, da Bengasi alle mail nascoste, alla sua misteriosa malattia. Sarebbe meglio di Obama, ma ne ha condiviso parte del percorso, compreso l’inizio delle disastrose trattative segrete con l’Iran. Sarebbe certamente meglio, per Israele e per il mondo, un presidente repubblicano, che farebbe anche pulizia dei molti aspetti dubbi sul piano politico e anche legale dei comportamenti di questa amministrazione.

Al di là degli “alleati inaffidabili” come Qatar, Arabia Saudita e Turchia, ritiene che il mondo occidentale abbia delle colpe per la crescita di certi focolai di terrorismo islamico in Medio Oriente, Isis in testa?
Bisogna distinguere fra Arabia Saudita, che è un paese islamista ma preoccupato di mantenere lo status quo e dunque non impegnato almeno ufficialmente in azioni di sovversione del quadro mediorientale, e Qatar e Turchia, che invece sostengono, finanziano e armano ufficialmente il terrorismo dello Stato Islamico e di Hamas. Turchia e Qatar non sono alleati poco controllabili, sono nemici dell’Occidente che indossano una maschera per dissimulare le proprie azioni. Lo stato islamico è il frutto delle loro azioni, senza i loro soldi e le loro armi non sarebbe sorto. Ma non è esso il pericolo più grande del Medio Oriente, come hanno detto anche politologi come Luttwark e grandi generali come Petreus. Il nemico di gran lunga più preoccupante è l’Iran.

Cosa risponde a chi in Europa si lamenta del fatto che Israele non sia ancora intervenuto contro l’Isis? E Israele, invece, cosa si aspetta da Ue ed Usa?
Israele ha una politica da lungo tempo stabilita e anche richiesta da Europa e Stati Uniti, per esempio in occasione delle guerre del Golfo di non partecipare ad azioni multilaterali in Medio Oriente che potrebbero provocare problemi con i paesi arabi, e in generale di non occuparsi di ciò che non impatta sulla sua sicurezza. Nessuno ha chiesto a Israele di intervenire contro lo Stato Islamico, anzi; e Israele non ha ragione di farlo finché sta lontano dai suoi confini.

In Medio Oriente gli scenari cambiano velocemente. Si può dire che oggi, ad esempio, Assad in Siria sia per Israele un “nemico migliore” rispetto ai ribelli che vorrebbero farlo fuori?
No, non si può dire che Assad sia un “nemico migliore”. Per rispetto alle sue vittime, innanzitutto. Ma poi anche perché Assad da tempo non è altro che un burattino dell’Iran che lo tiene in piedi con armi e soldati, soprattutto di Hezbollah. Avere Assad ai confini per Israele vuol dire doversi misurare direttamente con l’Iran, che è uno stato grande, ricco di risorse, bene organizzato, con una grande tradizione imperiale e una spinta espansionistica che è già arrivata al Nord in Libano e sul Golan e al Sud in Yemen.

Tra gli argomenti più dibattuti, anche in riferimento alle elezioni israeliane, c’è il riconoscimento dello stato palestinese. Cambiarebbe qualcosa? Sarebbe utile per avviare un processo di pace, come sostengono soprattutto i detrattori di Netanyahu?
Non esiste uno stato palestinese, ma almeno due: Gaza e Ramallah. Entrambi sono dominati da regimi corrotti e violenti, non democratici, che hanno tenuto elezioni una sola volta dieci anni fa. Se i due di dovessero unificare, questo probabilmente avverrebbe con la presa del potere da parte di Hamas, che non è più terrorista di Fatah che domina a Ramallah, ma è più aggressivo, militante e organizzato. Il solo senso pratico di un “riconoscimento” di questo stato che non c’è sarebbe il ritiro delle forze israeliane dai territori che Israele amministra in seguito alla guerra del ’67 e che gli sono affidati dai trattati di Oslo. Se rispettata questa provocherebbe la caduta del governo di Abbas e l’impianto di una rete terrorista simile a quella di Gaza, direttamente dentro Gerusalemme e a quindici chilometri dal centro di Tel Aviv. Il che naturalmente provocherebbe a breve un’offensiva terrorista generalizzata e la risposta israeliana. Cioè la guerra; una guerra vera, non solo le operazioni limitate di Gaza. Chi chiede il riconoscimento di uno stato di Palestina lavora per accendere una nuova guerra nel solo territorio del Medio Oriente che l’ha evitata.

A proposito delle elezioni. La grande novità è stata la lista unita degli arabi israeliani. Alcuni di loro non si riconoscono nell’inno e nella bandiera israeliana. Un problema che si può risolvere? E come?
La lista araba è stata solo una novità tecnica. C’erano e ci sono tre partiti arabi, uno comunista, uno vicino a Fatah e uno vicino a Hamas: tutti da sempre antisraeliani. Si sono messi assieme per le elezioni dovendo superare una barriera minima di voti che è stata introdotta per limitare la frammentazione politica. Col gioco dei resti e con uno o due punti percentuali di crescita sono passati da 11 seggi su 120 a 13. Che questo piccolo successo sia stato presentato come una rivoluzione testimonia solo dell’ignoranza e dell’ideolgismo dei media occidentali.

Ultima domanda: l’Europa, debole in politica estera ed altrettanto in quella interna, è in grado di difendersi dal terrorismo islamico?
No, l’Europa non è in grado di difendersi e forse non vuole farlo, come ha spiegato il romanzo “Sottomissione” uscito per significativa coincidenza contemporaneamente agli attentati di Parigi. Non è capace perché dominata dal terzomondismo, dal buonismo, da una burocrazia ottusa e ideologica. Ma c’è un pericolo ancora peggiore. Che nei prossimi anni gli europei si trovino, come già accade in alcuni paesi, di fronte alla scelta fra fascismo più o meno riverniciato e islamismo. E’ una scelta davvero tragica, cui non saprei come far fronte.

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