Elementi di propaganda

Perché la sinistra ha adottato Francesca Albanese

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi, è ormai una delle figure più divisive del panorama pubblico italiano. Idolatrata da una parte della sinistra e criticata con forza dal mondo accademico e diplomatico, rappresenta perfettamente la trasformazione di un incarico tecnico dell’ONU in un fenomeno politico-mediatico. Per una parte della sinistra radicale, Albanese è la voce che osa dire ciò che gli altri tacciono. Le sue denunce contro «le violazioni sistematiche di Israele» e la complicità dell’Occidente nel «genocidio a Gaza» vengono accolte come prove di coraggio e autenticità, soprattutto in un clima di crescente polarizzazione e rigurgiti di antisemismo. I suoi interventi televisivi e social sono divenuti materiale di culto: parole dure, toni emotivi e un linguaggio che mescola diritto internazionale e indignazione morale.

È il profilo perfetto per una sinistra che, dopo anni di smarrimento, cerca figure simboliche in grado di incarnare il conflitto fra i “potenti” e gli “oppresi”. Ciò che molti dei suoi sostenitori tendono a ignorare è che il mandato del relatore ONU si limita a indagare le presunte violazioni di Israele nei Territori palestinesi, senza includere quelle di Hamas o di altri gruppi armati. È una cornice istituzionale parziale che, unita alla retorica personale dell’Albanese, ha reso il suo ruolo inevitabilmente politico. Lungi dal mantenere un profilo diplomatico, la relatrice ha adottato un linguaggio apertamente militante, definendo Israele «un regime di apartheid» e parlando di «pulizia etnica». Tesi che le hanno garantito applausi nelle piazze pro-palestinesi ma anche dure reprimende da governi e accademici, inclusi funzionari dell’ONU senza dimenticare che è stata sanzionata dagli Stati Uniti.

Il punto di svolta è arrivato all’inizio di ottobre, durante una puntata del programma In Onda su La7. Durante un confronto sul conflitto di Gaza, l’analista Francesco Giubilei ha citato la senatrice a vita Liliana Segre, ricordando la sua contrarietà all’uso del termine “genocidio” per descrivere le operazioni israeliane. Al solo sentire il nome di Segre, Albanese si è alzata e ha abbandonato lo studio, lasciando i conduttori visibilmente spiazzati. La scena, ripresa dalle telecamere, è diventata virale e ha scatenato una valanga di reazioni. Poche ore dopo, Albanese ha giustificato il gesto dichiarando che «non parla con chi non è preparato sul tema di Gaza» e accusando i suoi interlocutori di «strumentalizzare la figura di Liliana Segre per negare il genocidio». In un’intervista successiva ha rincarato la dose: «Rispetto profondamente la senatrice Segre, ma non possiamo decidere se c’è o meno un genocidio in base alla sua opinione».Ha poi paragonato la situazione a quella di «un malato di tumore che non può diagnosticare il proprio male: per quello serve l’oncologo», frase che ha provocato indignazione e accuse di mancanza di rispetto verso i sopravvissuti alla Shoah. Il figlio di Liliana Segre, Luciano Belli Paci, ha reagito duramente, definendo Albanese «una militante ossessionata dal confronto con mia madre» e accusandola di trasformare il dibattito in «un’arena ideologica senza spazio per la pietà».

Nonostante le polemiche, una parte della sinistra italiana ha immediatamente difeso Albanese, presentandola come vittima di un linciaggio mediatico orchestrato da chi vuole “zittire la verità su Gaza”. Festival, talk show e pagine militanti sui social hanno rilanciato la sua immagine come quella di una donna sola contro il sistema, una “voce libera” perseguitata per aver detto la verità. Questa difesa incondizionata, però, rischia di trasformarla da osservatrice ONU a bandiera politica, riducendo la complessità del conflitto a un duello simbolico tra “giusti” e “colpevoli”.

Il caso Albanese mostra quanto la sinistra italiana fatichi a distinguere tra la denuncia dei diritti umani e la militanza ideologica. L’uscita dallo studio di fronte al nome di Liliana Segre, figura universalmente rispettata, e le sue successive dichiarazioni hanno evidenziato una deriva in cui la sensibilità morale viene sacrificata alla lotta politica. Trasformata in un’eroina da chi vuole “rompere i tabù”, Albanese finisce per incarnare non la ricerca della giustizia, ma l’ossessione del conflitto. La sinistra ha adottato Francesca Albanese perché incarna un bisogno identitario: quello di schierarsi, di avere un simbolo controcorrente da venerare. Ma l’episodio con Liliana Segre segna un punto di non ritorno. Quando il dissenso diventa spettacolo e la causa si riduce a gesti teatrali, anche la battaglia per i diritti perde la sua credibilità morale. E a questo punto sorge un’ultima domanda, tanto semplice quanto inevitabile: il mandato alle Nazioni Unite è a titolo gratuito, quindi oggi come si mantiene Francesca Albanese?

 

 

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