Interviste

“Ritornare a Ariel Sharon”. Intervista a Daniel Pipes

Il 14 di dicembre Commentary ha pubblicato l’ultimo articolo di Daniel Pipes sul conflitto arabo-israeliano, “Una nuova strategia per la vittoria di Israele” che, per concessione del suo autore è stato tradotto e pubblicato in anteprima per l’Italia da L’Informale.

L’articolo è un vero e proprio manifesto per un nuovo approccio a quello che è il più duraturo conflitto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi.  Si tratta di una analisi lineare la quale mira diritta al centro della questione. Daniel Pipes, già intervistato da noi a settembre, ha accettato di nuovo di concederci una intervista esclusiva.

Professor Pipes, comincerei con la sua accusa principale nei confronti delle negoziazioni israeliane palestinesi. Si tratterebbe di un circolo vizioso che non fa che perpetuarsi, una specie di follia. E’ effettivamente così?

Sono stato un po’ poetico nel paragrafo di apertura del mio articolo riferendomi alla follia, anche se gli sforzi diplomatici israelo-palestinesi ripetono lo stesso pattern all’infinito. Gli israeliani fanno delle concessioni ai palestinesi i quali rispondono con l’incitamento in modo che la violenza aumenti fino a quando poi gli israeliani fanno altre concessioni e il processo si ripete.

Nel suo articolo lei presenta gli Accordi di Oslo del 1993 come un errore fondamentale dalla parte di Israele. Quali sono state le ragioni principali di questo approccio errato?

Il desiderio impellente di porre fine al conflitto, anche se l’altra parte non era pronta a farlo, seguito dalla persistente cecità relativa a quello che hanno fatto i palestinesi.

Una delle più caratteristiche più degne di nota della sua analisi è che lei non vede una uscita dalla palude araba-israeliana se non attraverso la piena assunzione da parte di Israele della sua forza militare. E’ così?

Non esattamente. Quando mi riferisco a una vittoria di Israele, non sto affermando che debba essere principalmente militare. Si tratta di un misto di forza militare, volontà politica, brillante vigilanza, diplomazia energica e altro. Ariel Sharon seguì questa impostazione politica dal 2001 al 2003.

Mentre leggevo il suo articolo ho avvertito aleggiare su di esso l’ombra di Carl von Clausewitz e quella di Thomas Hobbes, due risoluti realisti ed empiristi che hanno sempre chiamato le cose con il loro nome. Quanto è stato influenzato da loro?

Ha ragione. Ho trascorso due anni a insegnare Clausewitz al Collegio Navale Americano, e questa esperienza ha avuto un effetto su di me. Quanto a Hobbes non è stato tanto lui ad avermi influenzato quanto altri pensatori politici inglesi.

Il suo invito nei confronti di Israele a essere vittorioso, risoluto e anche spietato, si oppone precisamente a quello che gran parte del mondo e una parte consistente dell’opinione pubblica israeliana, desidera che faccia. Sembra che lei dica, “Non preoccupatevi se ciò peggiorerà la vostra reputazione perché lo scopo da raggiungere è più importante”. E così?

Lo è in parte. Rilevo che quando il governo israeliano intraprende i passi deboli che “la gran parte del mondo” ama, come ritirarsi dal Libano e da Gaza, la benevolenza dura forse sì e no una settimana e poi l’antisionismo aumenta. Viceversa, quando Gerusalemme è risoluta, come nel raid a Entebbe, guadagna popolarità e rispetto. Quindi, mentre il perseguimento della vittoria, sotto l’aspetto delle relazioni pubbliche, può avere nel breve tempo un prezzo da a pagare, ritengo che nel lungo periodo beneficerà Israele.

L’alleanza con gli Stati Uniti è centrale per Israele. Molti analisti ritengono che l’Amministrazione Obama sia stata la meno amichevole in assoluto nei confronti di Israele, anche lei è di questa opinione?

No. Eisenhower fu molto meno amichevole di Obama. Obama detiene un primato misto relativamente a Israele. Non così favorevole come affermano i suoi sostenitori né così negativo come gli attribuiscono i suoi critici. Ha dato il meglio in merito al trasferimento di armamenti e il peggio nel mantenere una relazione rispettosa con Netanyahu.

Cosa si aspetta dall’Amministrazione Trump relativamente allo Stato ebraico e al Medioriente in generale?

Non è possibile prevederlo. Trump non è un pensatore sistematico ma una persona che risponde intuitivamente alle circostanze. Il suo Segretario di Stato non ha alcuna esperienza di politica estera, e il suo Ministro della Difesa e il consigliere per la Sicurezza Nazionale danno l’impressione di essere un coacervo di contraddizioni.

Spostare l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme è una buona idea o ricade sotto la battuta di Joseph Fouché, che “più che un crimine è un errore”?

No, la Battuta di Fouché non si applica in questo caso. E’ la cosa giusta da fare, ma dubito che il trasferimento avrà luogo a meno che non avvenga nel contesto di volere incoraggiare una vittoria israeliana, altrimenti non vale il disturbo che Washington dovrebbe prendersi la briga di accollarsi.

Qual è la sua opinione relative alla nomina del generale James Mattis a nuovo Ministro della Difesa in relazione a quanto detto in passato, che gli insediamenti israeliani vanno nella direzione di trasformare Israele in uno stato in cui si pratica l’apartheid?

Mattis è stato il comandante del CentCom e in quel ruolo è entrato in contatto con molti nemici di Israele che lo hanno influenzato. Forse sosterrà le opinioni già espresse, forse le abbandonerà. Non sono in grado di predirlo.

A proposito dell’alleanza tra Putin, Rouhani e Erdoğan e il rinnovato ruolo della Russia in Medioriente, in che modo Israele e gli Stati Uniti sono influenzati dall’unione di tre autocrati i quali disprezzano i valori liberali e la democrazia ma si presentano all’avanguardia contro l’estremismo islamico?

Dubito che questi tre leaders possano guadagnare molto da una alleanza poiché le tensioni tra di loro sono così dense che possono quasi essere toccate. L’idea che due islamisti come Rouhani ed Erdoğan combattano l’estremismo islamico è un modo divertente di concludere l’intervista.

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