Editoriali

Trump in Israele: un bilancio provvisorio

Festosamente ricevuto in Israele, Donald Trump è ripartito portandosi appresso molti sorrisi, benevolenze, auspici. La sintonia con Benjamin Netanyahu è ottima. A vederli insieme sembrano due vecchi compagni di liceo felici di essersi ritrovati dopo molti anni e tutto questo fa piacere, soprattutto fa piacere vedere Trump, primo presidente americano nella storia che, nella sua veste istituzionale, visita il Kotel e si raccoglie in preghiera nel luogo più santo per l’ebraismo.

Riguardo ai contenuti della visita, il presidente americano ha esplicitamente indicato che ci sono condizioni favorevoli alla ripresa del processo di pace in stallo da tre anni, spiegando che a Riad, dove si è recato prima di arrivare a Gerusalemme, “c’è molto amore”. Ecco sì, l’amore è un ingrediente essenziale per portare a casa la pace, anche se c’è ragionevolmente da avanzare qualche dubbio sullo slancio affettivo wahabita nei confronti dello Stato ebraico. Ma Trump è così, lessicalmente saccarino con chi percepisce affine. Lancia il cuore oltre l’ostacolo, anche se poi non lascia trapelare nulla sui modi in cui l’amore (All you need is love), sì concreterà nell’empiria.

Di fatto non vi è un solo fattore specifico che indichi che da parte dell’Autorità Palestinese, per non parlare della popolazione palestinese, vi sia un mutato atteggiamento nei confronti di Israele. Anzi. Abu Mazen continua a essere assai impopolare e Hamas non ha retrocesso di un millimetro nella sua intenzione di liberare tutta la Palestina dall’”usurpatore” sionista. All’interno dello stesso Fatah la retorica antisraeliana non si discosta molto da quella del gruppo rivale che controlla Gaza, e con il quale ormai da tempo si è giunti ai ferri corti. Per non parlare della cultura dell’odio per l’ebreo e il sionista, che da decenni l’OLP, Fatah e Hamas hanno instillato nelle giovani generazioni palestinesi, partendo dalla prima educazione in cui ai bambini vengono forniti libri di testo nei quali la mappa della Palestina è priva di Israele per proseguire con l’esaltazione dei terroristi come martiri, meritevoli di strade intitolate a loro nome.

Da parte israeliana la vecchia volpe Netanyahu, assai sollevata dal feeling con l’amico americano dopo otto anni di frizioni con Obama, sa benissimo che fuori dalla retorica ottimista, dalle parole alate, la realtà suona un’altra musica, meno carezzevole e piena di dissonanze timbriche.

La domanda che ci si inizia a porre è, quanto sarà veramente vantaggioso per Israele, Donald Trump? Non ci sono dubbi che, rispetto al suo predecessore, le dichiarazioni di affetto e vicinanza siano notevolmente più marcate, ma al momento, di concreto Israele non porta a casa nulla. L’ambasciata americana che da Tel Aviv doveva essere spostata a Gerusalemme resta dove è, gli insediamenti permangono nello status quo e di annessioni non è nemmeno il caso di parlarne.

L’ottimismo non è un obbligo ma una scommessa assai azzardata in questa situazione irta di complessità estreme e di ostacoli a ogni angolo. Israele intanto incassa la benevolenza di Trump, ed è già qualcosa rispetto all’ostilità di Obama ma è ancora assai poco per pensare che sia fatto un reale passo avanti. Il rischio grande è uno, che la politica americana nei confronti di Israele si incanali sui binari arrugginiti degli ultimi trent’anni. E i segnali, a meno di eventi positivamente clamorosi, sembrano essere esattamente questi.

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