Elementi di propaganda

Venezia, il Festival del Cinema ridotto a monotematismo politico

Il Festival del Cinema di Venezia dovrebbe essere la celebrazione della settima arte. E invece, anche quest’anno, il Lido si è trasformato in una vetrina monotematica, dove l’unico argomento capace di monopolizzare i riflettori è Gaza. Red carpet, conferenze stampa, interviste: ovunque la parola chiave resta la stessa. Non la qualità delle opere, non le innovazioni stilistiche, non il coraggio dei registi. Ma Gaza, sempre e soltanto Gaza.

È la nuova liturgia dell’industria culturale: indignazione selettiva e solidarietà a senso unico. Gli ospiti del Festival sventolano slogan e si concedono dichiarazioni di fuoco su Israele, ma ignorano sistematicamente il resto del mondo. I massacri nel Congo orientale, dove i civili vengono massacrati dai ribelli M23, non strappano una riga. La carestia nello Yemen, che ha provocato migliaia di vittime silenziose, non riceve un applauso. L’Ucraina, dopo due anni di guerra, è ormai uscita dall’agenda delle star. L’unico tema che garantisce visibilità e like resta la Striscia di Gaza.

La monocromia ideologica produce paradossi evidenti. Attori che non distinguerebbero Gerusalemme da Ramallah si improvvisano esperti di geopolitica, registi che fino a ieri dichiaravano «l’arte non deve piegarsi alla politica» oggi indossano kefiah sul tappeto rosso. L’arte, piegata a slogan precotti, diventa un accessorio alla moda, utile a guadagnarsi titoli di giornale e standing ovation in sala.

Nel frattempo, il clima avvelenato del Festival ha avuto un effetto silenzioso ma significativo: diversi attori e registi israeliani hanno deciso di rinunciare alla partecipazione per timori legati alla loro incolumità. Non si tratta solo di contestazioni o fischi: la tensione è tale che chiunque provenga da Israele rischia di trasformarsi in bersaglio, prima mediatico e poi fisico. Un paradosso nel paradosso: la Mostra che si proclama spazio di libertà e dialogo diventa un luogo in cui alcuni artisti non si sentono sicuri di esprimersi o persino di presentarsi.

L’aspetto più corrosivo, però, è la doppia morale che pervade l’intero evento. Il Festival si vanta di difendere la libertà di parola, ma premia e amplifica soltanto una narrazione. Tutto ciò che contraddice lo storytelling dominante viene relegato al silenzio. La complessità del conflitto scompare, sostituita da slogan semplificati. E la parola “pace”, che dovrebbe essere universale, diventa un vessillo di parte.

La riduzione del cinema a comizio politico ha conseguenze devastanti: si sacrifica la pluralità degli sguardi, si spegne il dibattito vero, si offusca la missione dell’arte di interrogare e disturbare. Invece di un mosaico di storie globali, Venezia si consegna al pensiero unico. Invece di celebrare la diversità del cinema, il Festival diventa il megafono di un’unica causa, applaudita a priori e ripetuta all’infinito.

Alla fine resta un’immagine amara: da un lato il tappeto rosso su cui sfilano star con dichiarazioni prefabbricate, dall’altro un’arte che abdica alla sua funzione critica per piegarsi al conformismo ideologico. Un Festival che doveva dare voce a tutte le storie del mondo, ma che ha scelto di raccontarne solo una, sempre la stessa.

Forse, per onestà, alla prossima edizione converrebbe togliere ogni ambiguità e ribattezzarlo direttamente «Gaza Film Festival».

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