Il mio Israele, che sboccia, solido, compassionevole, progressista, coraggioso.
Il mio Israele sono i coltivatori che parlano l’ebraico, e quelli che parlano l’arabo. Che lavorano la terra con mani robuste, che vogliono solo vedere le loro cose crescere.
Il mio Israele sono gli attivisti di Rabbis for Human Rigth, che superano i posti di blocco per poter piantare un olivo.
E le giovani donne, che dai loro negozi di fiori in Dizengoff, donano rose per I funerali delle vittime del terrorismo.
Ed i ragazzi e le ragazze che piantano alberi su Tu Bishvat, con la speranza, un giorno, di usare quei rami per farne il loro gazebo nuziale.
Ed una donna anziana, che nasconde un seme nella terra, per crescere un albero di fico che non potrà mai vedere, se non come una piccola macchia verde. Ma lo semina comunque, poiché un giorno sua nipote avrà una nipote, e lei potrà raccogliere i fichi e sentire quanto sono dolci.
Il mio Israele sgomitola campi Verdi, e frutteti, cactus e clementine, un prato di girasoli a giugno, ed un deserto rosso di papaveri con le piogge estive. Il mio Israele è selvaggio in primavera, e dolce di gelsomini nella notte tiepida; ma è anche il rotolacampo, stracciato e vagabondo, per ricordarsi di apprezzare quando la terra tornerà verde di nuovo. Cosa che farà. Lo fa sempre.
Il mio Israele è forte, e supera limiti.
Il mio Israele è l’uomo di 83 anni con le braccia tatuate, che si sveglia ogni giorno all’alba e va a correre nel Park HaYarkon, e che correrà la Maratona quest’anno.
Il mio Israele è la madre single che lavora full time e studia Farmacia, che corre a casa a dar da mangiare ai bambini, e canta loro la stessa canzone che la madre soleva cantarle, poi beve due tazze di caffé prima di iniziare a studiare la tesi in chimica.
Il mio Israele è il ragazzo con le mani in aria sempre a far domande, e la ragazza che parla di nascosto di quanto l’insegnante sia sgradita, che prende le difese degli amici durante la ricreazione, e che un giorno prenderà le difese del proprio popolo.
Ed il medico, che dopo l’uragano Katrina sale su un aereo e vola dall’altra parte del mondo per cercare di aiutare i feriti, e ricostruire una città intera da capo. Il mio Israele sono le decine di volontari che sono i primi ad arrivare e gli ultimi ad andarsene.
Il mio Israele ricorda l’alluvione, e attende i nuovi rami di olivo.
Il mio Israele è compassionevole.
Il mio Israele è l’autista dell’autobus che si accosta e, nel mezzo di una tempesta di sabbia, insiste che la donna che cammina al lato della strada salga su, e senza pagare.
E il tassista che ha accompagnato i miei figli e me fino in ospedale, quando il mio bambino non riusciva a respirare, che non volle essere pagato per la corsa, e anzi, mi offrì un piccolo rosario e una preghiera per lui.
Il mio Israele sono gli uomini e le donne che guidano fino alle basi militari nella dura tempesta invernale, con pentole colme di zuppa e cioccolata calda e caffè per i soldati che affrontano coraggiosi il freddo all’esterno.
E gli adolescenti, che sono volontari negli orfanotrofi ed insegnano ai bambini a leggere.
Ed il soldato stanco, che lascia il suo posto sul bus per la donna incinta con hijab, e l’uomo con la kefia che lascia qualche moneta per il mendicante ebreo alla stazione degli autobus.
Il mio Israele sono gli attivisti per i diritti umani che spendono le loro vite per difendere chi non ha diritti, gli oppressi, indipendentemente dalla loro razza o religione.
Il mio Israele è potenziale.
Il mio Israele è Shlomit e Moshe e Suha e Muhammad che mandano i loro bambini alla scuola mista ebrea e araba a Neve Shalom Wahat Al Salaam – Oasi di Pace. E il mio Israele sono i loro due bambini che si scambiano le merende a ricreazione.
Il mio Israele è lo sceicco sul Monte degli Olivi che accoglie i viaggiatori esausti di ogni fede, di ogni cultura, fin tanto che giungono con mente e cuore aperti,
Il mio Israele sono quelle due donne che si baciano in mezzo all’arcobaleno di Tel Aviv, e i due uomini che hanno adottato il loro primo bambino dall’India, e lo hanno accolto nella loro tribù con amici e familiari come testimoni.
Il mio Israele riduce il deserto per farlo fiorire, sviluppa linee di irrigazione e costruisce linee elettriche.
Il mio Israele è il ragazzetto deriso a scuola che si riordina la mente nell’esercito e poi decide di aprire una compagnia dal nulla, ed ha successo.
Il mio Israele è un prete, un Imam ed un rabbino che entrano in un bar a parlare di fede e di Dio, e no, non è l’inizio di una barzelletta, è l’inizio di una amicizia.
Il mio Israele sono le persone che mostrano quando è spiacevole, quando è doloroso, quando fa paura.
Le persone che arrivano davanti ad una moschea dissacrata da estremisti ebrei perche “kol Ysraele arevim zeh la-zeh” (“Ogni Israeliano è responsabile di tutti gli altri”) non significa solo che dobbiamo farci carico degli altri, ma anche che ci assumiamo la responsabilitaà per gli errori del nostro popolo. Queste sono le persone che prendono spazzole e sapone e puliscono I muri, e poi li ridipingono per renderli migliori.
Persone che vanno ad una manifestazione con I loro bambini anche se è notte fonda e affollata e caldo e umido nel pieno dell’estate, ma ci vanno lo stesso perche è importante che vadano e che portino anche I loro bambini, perchè è piu importante per loro vedere cosa sia il cambiamento.
Le persone che possono soffiarti il parcheggio ad Azrieli, ma che ti abbracciano con calore al funerale di tuo zio.
Le persone che corrono VERSO il luogo di un attentato e non via da li, perche vogliono aiutare a salvare delle vite.
A volte il mio Israele mi indigna.
E’ rumoroso e troppo vicino, e schiaccia e spinge, grida e lotta e si lamenta.
E a volte mi fa desiderare di strapparmi I capelli, o scappare, verso un posto fatto di tramonti tranquilli e colline non così complicate.
A volte, il mio Israele fa degli errori, e dimentica la nostra storia – dove siamo stati e soprattutto dove dobbiamo andare.
Ma il mio Israele è più di questo:
Noi siamo lavori in corso. E cosi come Giacobbe lottò con Dio prima di divenire Israele, cosi in Israele noi lottiamo con la nostra identità. Perché siamo ancora una nazione giovane, costruita su un antico sogno.
Ma a volte ho paura che il mio Israele sia in pericolo – le forze dell’estremismo, della rigidità e dell’intolleranza faranno scomparire quell’Israele che amo.
Ma poi guardo tutti voi qui e vedo la vostra compassione e dedizione, e so che ce la faremo.
Perché il mio Israele ha le lacrime agli occhi quando canta HaTikvah.
Perché il mio Israele è speranza.
Di: Sarah Tuttle-Singer, Times of Israel
