Islam e radicalismo islamico

C’è solo una risposta efficace al jihad ed è quella delle armi

La distruzione, parziale o totale che sia, dell’infrastruttura nucleare iraniana da parte di Israele e degli Stati Uniti rappresenta un successo per quello che, un tempo, si sarebbe definito «mondo libero». Eppure, il successivo «cessate il fuoco» imposto dal Presidente Trump a Israele testimonia, per l’ennesima volta, l’incapacità dell’Occidente di comprendere la natura dell’Islam, sunnita e sciita, e in particolare la sua santificazione della violenza e del «martirio» in adempimento al comando di Allah sul dovere della guerra santa, il jihad.

Uno dei più significativi esegeti islamici, lo studioso di fine XIV secolo Ibn Khaldun, nei suoi «Prolegomeni a una storia universale» (al-Muqaddimah), scrisse: «Nella comunità musulmana, la guerra santa è un dovere religioso, a causa dell’universalità della missione musulmana e dell’obbligo di convertire tutti all’Islam, sia con la persuasione che con la forza». È noto che gli islamici dividono il mondo in due categorie: la «Dimora dell’Islam» (dar al-Islam), ossia i territori sottoposti al dominio dell’Islam, e la «Dimora della Guerra» (dar al-harb), il territorio dei non musulmani, che devono essere combattuti e convertiti. Più o meno come Carl Schmitt, il giurista del Terzo Reich, divideva il mondo in «amici» e «nemici» (hostes), facendo dell’individuazione e dell’annientamento di quest’ultimi il fondamento dell’agire politico.

Questa ambizione «universalista» del jihad, animò le conquiste e le occupazioni islamiche di territori che erano stati cristiani per millenni. Una volontà di dominio che rappresentò una minaccia per l’Occidente fino a quando l’espansione dell’Europa nei territori extraeuropei, compresi quelli musulmani, non iniziò ad accelerare nel XVIII secolo. Questo cambiamento, avvenuto nel corso di lunghi decenni, ha avuto un profondo impatto sull’Islam e ha suscitato richieste di riforma e un ardente desiderio di tornare ai «fondamenti» della fede (da qui il termime fondamentalismo). «Dall’inizio della penetrazione occidentale nel mondo non europeo – ha scritto lo storico Bernard Lewis – fino ai nostri giorni, le risposte politiche più caratteristiche, significative e originali a tale penetrazione sono state quelle islamiche. Esse si sono concentrate sui problemi della fede e della comunità sopraffatta dagli infedeli».

La fede nel mandato divino dell’Islam di conquistare e «redimere» il mondo intero non è stata intaccata dai solventi secolari della modernità, come invece è accaduto al Cristianesimo. Il sogno di dominio mondiale è rimasto vivo nei cuori e nelle menti di molti musulmani. Nel 1924, l’egiziano Hasan al-Banna creò la Fratellanza Musulmana per riportare l’Islam alla sua purezza dottrinale, incentrata sul jihad, al fine di far rivivere l’impero islamico usurpato dagli infedeli occidentali. Hasan al-Banna riteneva che fosse nella natura dell’Islam dominare il creato e imporre le sue leggi a tutte le nazioni del pianeta. Il suo confratello musulmano Sayyid Qutb, «padrino intellettuale» di Osama bin-Laden e di al-Qaeda, sostenne la necessità di far rivivere la comunità musulmana (Umma), ritenuta «decadente» e sepolta sotto il peso di false leggi e false usanze lontane dagli «autentici» insegnamenti islamici.

A queste ambizioni catartiche e apocalittiche – così simili a quelle che animavano gli ideologi dei totalitarismi europei (nazismo e comunismo) – non sono estranee nemmeno all’Islam sciita. La Rivoluzione Islamica iraniana e la sua Guida, l’ayatollah Khomeini, hanno rilanciato con successo il sogno di una rigenerazione dell’Islam attraverso una violenza «purificatrice» a danno degli infedeli e, soprattutto, degli ebrei e del loro Stato. La dottrina teologica del clero sciita, ritiene che il ritorno di Muhammad ibn Hossein al-Mahadi – più semplicemente noto come Mahdi, ovvero il «dodicesimo imam» (donde la definizione di Islam duodecimano), figura messianica dell’escatologia islamica destinata ad annunciare la «Fine dei Tempi» – dal suo «divino nascondimento» possa essere accelerata attraverso la guerra e la «conflagrazione mondiale», per usare le parole dell’ex presidente iraniano, Ahmadinejad.

La distruzione dell’infrastruttura nucleare iraniana ha frustrato le attese messianiche degli sciiti e deluso tutti quei musulmani sunniti, come i membri di Hamas, che sognavano un «olocausto nucleare» attraverso l’atomica mahadista. Noi occidentali laici, che abbiamo relegato la fede a un fatto privato o a una bizzarra superstizione, spesso non riusciamo a comprendere o a prendere sul serio il ruolo smisurato che queste esaltate fantasie religiose hanno nella politica islamica. Questa mancanza di immaginazione, quando non vera e propria ignoranza, si è rivelata un errore strategico.

Lo Stato di Israele, ritenuto erede di quegli ebrei che si opposero a Maometto, fin dalla sua erezione, è stato bersaglio di una violenza sancita e glorificata dalla religione. Israele rimarrà «una democrazia in guerra» finché i fondamentalisti non saranno sconfitti in modo definitivo. La cosidetta «guerra dei dodici giorni» è stata necessaria per smantellare almeno parte del nucleare iraniano, tuttavia, come si è già detto, la riluttanza del Presidente statunitense a intervenire militarmente, così come la sua affannosa ricerca di un «accordo», hanno impedito a Israele di portare fino in fondo l’azione militare. Per quanto possano, strumentalmente, apprezzare gli appelli di Trump alla pace e alla riconciliazione, i mullah e gli altri ferventi jihadisti non li vedono come espressioni di magnanimità e rispetto per la vita, ma come sintomi della debolezza spirituale degli «infedeli». Ogni respiro concesso agli ayatollah sarà sfruttato e utilizzato per alimentare le loro ambizioni globali.

Trump, proprio come i suoi predecessori, Obama e Biden, nonché l’intera leadership europea, è caduto vittima della retorica dell’«impegno diplomatico», una formula che ha assunto una valenza quasi magica, come se, pronunciando semplicemente queste parole, anche il più fanatico degli jihadisti decidesse di diventare ragionevole.

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