Islam e radicalismo islamico

Cultura dell’odio

La propaganda precede la guerra; scava nuove «tombe nell’aria» − per usare un verso di Paul Celan − e attende che vengano riempite. La guerra contro gli ebrei non si è mai limitata alle armi; è sempre stata, prima di tutto, una guerra di parole. Quando le bombe esplodono sugli autobus e i razzi cadono sulle case israeliane, quando la folla grida «Hamas, Hamas, ebrei al gas» e l’Iran corre verso la costruzione della sua «bomba genocidaria», le menzogne della propaganda devono farsi sempre più audaci, così da coprire non solo gli omicidi di singoli individui e i «piccoli» atti di terrorismo, ma il potenziale massacro di milioni di persone.

La «grande menzogna», quella abbastanza ampia da riempire altre sei milioni di tombe, è che Israele non ha alcun diritto di esistere, che lo Stato ebraico altro non è che un’entità «illegittima», «occupante» e «guerrafondaia». La «grande menzogna» è anche l’accusa secondo cui Israele avrebbe provocato le guerre che non gli hanno mai dato pace e che gli esiti di quelle guerre, tra cui il presunto «genocidio», rendono le atrocità dei suoi nemici comprensibili e persino giustificabili.

In realtà, dalla violenza del 7 ottobre fino ai suoi antecedenti risalenti al periodo del Mandato Britannico per la Palestina, la storia dimostra che non è stato il rifiuto sionista di riconoscere agli arabi palestinesi il «diritto all’autodeterminazione» a scatenare le loro campagne di terrore. Al contrario, è stata la volontà di «autodeterminazione palestinese» a dare forza, potere e identità a un popolo immerso nell’odio per gli ebrei, spingendolo sulla via dello stragismo indiscriminato.

Gli arabi-palestinesi massacrarono gli ebrei della Palestina nel 1929, poi durante le rivolte del 1936-39, e ci riprovarono nel 1948. Allora non c’erano né Netanyahu né Bezalel Smotrich né Ben-Gvir o presunti «coloni». Prima del ’48 non c’era nemmeno uno Stato ebraico, eppure gli arabi uccidevano gli ebrei. L’identità «palestinese» è puramente negativa, si fonda solo sull’odio per gli ebrei: «uccido, dunque sono».

Nel 2006, a Gaza, quando gli arabi-palestinesi hanno potuto votare, per la prima volta, in elezioni legislative, hanno scelto Hamas, un’organizzazione islamista e genocida che, ieri come oggi, traeva la sua popolarità dal suo rifiuto di prendere in considerazione anche solo l’idea di uno Stato ebraico. Quelle elezioni hanno dimostrato, ancora una volta, che la causa principale del terrorismo risiede in una cultura dove il successo politico discende dalla volontà di uccidere gli israeliti, non da quella di portare la pace.

La capacità di Hamas di compiere attacchi terroristici tra i più «spettacolari» e sanguinosi, impiegando attentatori suicidi, le ha garantito il vantaggio elettorale. Laddove i partiti politici israeliani competevano per la popolarità offrendo agli elettori pace e prosperità, le fazioni palestinesi si sono sfidate su chi avrebbe potuto uccidere più ebrei. Hamas ha vinto grazie alle sue ondate di sangue.

La guerra è ciò che fornisce un senso «esistenziale» agli islamisti. Nel corso di quest’ultimo conflitto, Ismail Haniyeh, ex padrone di Gaza, affidò a una TV qatariota il seguente messaggio: «Abbiamo bisogno del sangue delle donne, dei bambini e degli anziani per risvegliare dentro di noi lo spirito rivoluzionario, per spingerci ad andare avanti». Aberrante, sì, ma non per gli arabi-palestinesi, che si definiscono attraverso la guerra, avendo costruito un’identità nazionale sul culto della morte e del martirio.

L’inarrestabile ascesa di Hamas negli ultimi vent’anni − i pessimi regimi durano quasi sempre almeno un ventennio − ha reso più chiaro che mai che il terrorismo palestinese non è la «resistenza» di un popolo indifeso che pretende autonomia politica nonché un territorio, ma la scelta calcolata e consapevole di aggressori fanatici e letalmente determinati. Se il problema fosse davvero l’occupazione, allora a una diminuzione del territorio «occupato» da Israele dovrebbe seguire un aumento della pace, ma i fatti non sono mai andati in questa direzione.

Il ritiro di Israele da Gaza nel 2005 e quello dal Libano nel 2006 non hanno portato alla pace, bensì a una maggiore instabilità, poiché Hamas e Hezbollah hanno sfruttato il vuoto politico e militare per conquistare Gaza e il Libano, utilizzando questo ritrovato potere per intensificare il conflitto con Israele. Meno territorio Israele ha occupato, maggiore è stata la violenza diretta contro di lui. L’obiettivo dei terroristi non è mai stato il «ritiro israeliano» e una pace giusta, bensì la perpetuazione del conflitto fino all’eliminazione dello Stato ebraico.

La guerra è una scelta. Hamas ha scelto la guerra e gli arabi-palestinesi hanno scelto Hamas. Scrisse lo scienziato politico Eric Voegelin: «Una società esiste nella misura in cui può darsi dei rappresentanti che agiscano in modo responsabile in sua vece. Se questi rappresentanti sono individui di dubbia moralità, come durante il perido nazista, ne consegue che la società nel suo insieme è ignobile, e questo significa che non funziona in modo corretto». Hamas ha un unico merito: aver messo in luce l’ignobiltà della società palestinese, che oggi si manifesta nell’esibizione pornografica di bambini malati fatti passare per vittime della «carestia».

Gaza non è il simbolo della «crudeltà israeliana», ma solo dell’impossibilità per gli arabi-palestinesi di riuscire a vivere come «buoni vicini» di un popolo democratico, non arabo e non musulmano. Il conflitto in Medio Oriente non riguarda l’occupazione israeliana di territori altrui; riguarda il rifiuto degli arabi di accettare Israele, che è un’inevitabile conseguenza del loro desiderio di distruggerlo, che a sua volta deriva da una radicata «cultura della morte». Questo desiderio è racchiuso nella parola che tutti i palestinesi – «moderati» ed estremisti – usano per descrivere la nascita di Israele: «Nakba», la catastrofe. La vera causa della guerra, come rilevò Golda Meir, è che i palestinesi odiano gli ebrei più di quanto amino la pace.

 

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