Lunedì il parlamentare del Likud Amit Halevi ha sferrato un attacco frontale contro l’imprenditore americano Steve Witkoff, figura chiave del settore immobiliare statunitense e storico collaboratore dell’ex presidente Donald Trump. Secondo Halevi, le recenti iniziative economiche di Witkoff e dei suoi soci nella regione del Golfo «mettono a rischio la sicurezza di Israele» e potrebbero «indebolire il controllo israeliano sulla Striscia di Gaza». In un’intervista alla radio dell’esercito, il deputato ha parlato senza mezzi termini: «Queste persone ci stanno conducendo alle porte dell’inferno». Le sue parole, destinate a far discutere tanto nel mondo politico quanto in quello economico, sono arrivate mentre a Gerusalemme si moltiplicano i timori per la crescente influenza di capitali americani e del Golfo nei progetti di ricostruzione e sviluppo postbellico di Gaza.
Dietro le accuse di Halevi c’è una rete complessa di rapporti economici che unisce Witkoff, Jared Kushner e diversi fondi sovrani arabi. L’imprenditore newyorkese, da anni vicino alla famiglia Trump, ha collaborato con Kushner in numerose operazioni immobiliari di alto profilo negli Stati Uniti e, più recentemente, in Medio Oriente. Dopo la fine dell’amministrazione Trump, i due hanno mantenuto un legame d’affari attraverso società e veicoli di investimento attivi tra Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Secondo fonti israeliane e statunitensi, Witkoff e Kushner avrebbero intensificato negli ultimi mesi i contatti con il Public Investment Fund saudita (PIF) e con la Qatar Investment Authority (QIA), i due principali fondi sovrani della regione. Entrambi sono interessati a progetti di sviluppo immobiliare, turistico e infrastrutturale con un valore stimato di diversi miliardi di dollari. Queste iniziative, tuttavia, sono considerate da alcuni analisti come un potenziale veicolo di influenza politica in un’area ancora segnata dal conflitto.
«Si stanno costruendo reti economiche e politiche che rischiano di aggirare Israele, riducendo la sua capacità di controllo e influenza sulla Striscia di Gaza», ha denunciato Halevi, convinto che il destino del territorio debba restare sotto la piena sovranità israeliana. «Prima o poi Israele controllerà Gaza, non c’è altro modo».
Le sue parole non rappresentano una novità. Già mesi fa, in un’intervista a 103FM, Halevi aveva ribadito la necessità di «stabilire un controllo totale» su Gaza. «Se controlli il territorio, allora nessun altro lo controlla», aveva dichiarato. «Non si lascia un vuoto, e non si lascia un vuoto per nessun programma scolastico che preveda lo stupro delle donne ebree e l’omicidio». Per il parlamentare del Likud, la questione non è solo militare ma anche ideologica: «Gaza appartiene a Israele esattamente come Tel Aviv appartiene a Israele», ha detto. «Stiamo contrastando i terroristi, ma non questa menzogna chiamata “palestinesicità”. Come possiamo essere occupanti a Gaza? Gaza appartiene a Israele nella stessa misura in cui appartiene Tel Aviv».
Il suo discorso riflette una visione nazionalista radicale, secondo cui il ritiro israeliano del 2005 ha lasciato un vuoto di potere che Hamas ha saputo riempire, mentre oggi alcuni interessi economici stranieri rischiano di consolidare quella stessa frammentazione. Nelle parole di Halevi, l’errore sarebbe duplice: «Lasciare spazio a chi finanzia Hamas e affidarsi a chi, in nome degli affari, cerca di riscrivere la mappa politica della regione». A essere criticato è anche il capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (IDF), il tenente generale Eyal Zamir. «Il capo di stato maggiore non ha idea del sistema internazionale o dell’economia: non sono argomenti di sua competenza. Deve occuparsi solo di una cosa, e cioè conquistare la Striscia», ha affermato Halevi, accusando i vertici militari di eccessiva prudenza e mancanza di visione strategica.
Il riferimento agli affari di Witkoff e Kushner con i fondi del Golfo non è casuale. Negli ultimi mesi, il team di Kushner – tramite la società Affinity Partners – ha ottenuto un finanziamento di circa due miliardi di dollari dal fondo saudita PIF, ufficialmente per investimenti immobiliari e infrastrutturali. Parallelamente, Witkoff ha avviato una serie di operazioni immobiliari di lusso in collaborazione con partner qatarioti, inclusi progetti sulla costa del Mar Rosso e a Doha, presentati come parte di un più ampio piano di cooperazione economica regionale. Per Halevi, tali investimenti non sono neutri: «Dietro queste iniziative si nascondono interessi che non coincidono con quelli di Israele», ha avvertito. «Chi costruisce a Doha o a Riad con soldi che in passato hanno finanziato Hamas o altre milizie islamiste, non può presentarsi come amico di Israele».
L’attacco del parlamentare ha aperto un fronte politico delicato, poiché tocca direttamente i rapporti tra l’amministrazione israeliana e alcuni dei partner più importanti di Washington nel mondo arabo. Nelle sue parole si riflette il timore che gli affari del Golfo – apparentemente orientati alla stabilità e allo sviluppo – possano trasformarsi in leve di pressione politica, soprattutto in vista dei piani di ricostruzione di Gaza che vedono coinvolti Qatar, Egitto e Arabia Saudita con il sostegno degli Stati Uniti.
«Se concludiamo il 7 ottobre con Hamas ancora in piedi e questa organizzazione islamista torna a sviluppare il suo mostro, Israele farà un passo indietro», ha detto Halevi. «Dobbiamo chiudere il 7 ottobre con una sconfitta completa di Hamas». Le sue parole risuonano come un monito rivolto non solo ai leader militari e politici israeliani, ma anche ai potenti gruppi economici che, dietro la facciata della cooperazione e della ricostruzione, mirano a ridefinire il futuro del Medio Oriente. In questo intreccio di affari e geopolitica, l’allarme di Amit Halevi segna un nuovo capitolo nella lunga battaglia – interna e internazionale – per il controllo di Gaza e per la sopravvivenza dell’identità politica israeliana.