Israele e Hamas

Il jihad e gli addobbi

Il palazzo della Knesset addobbato con illuminazione USA, blu rosso e bianco, è l’emblema dell’accordo raggiunto tra Israele e Hamas, in virtù dell’imposizione di Donald Trump, il quale, pochi giorni fa, ha dichiarato che l’accordo andava bene anche a Netanyahu, perché con lui “è meglio andare d’accordo”.

È chiaro a tutti che questo accordo, che, nella prima fase vede la liberazione degli ostaggi, il principale asset di Hamas, arriva in un momento in cui Israele è alle corde, dopo il fallito attentato in Qatar, dopo due anni logoranti di una guerra che non accenna mai a concludersi nonostante operazioni folgoranti in Libano e in Iran e la decapitazione dell’intero vertice storico di Hamas, a fronte di un Paese sfinito, e per il quale, la priorità non è più da tempo la sconfitta di Hamas ma la liberazione degli ostaggi.

Il piano Trump, faraonico nella sua architettura e basato sul presupposto delle magnifiche sorti e progressive, più che il frutto di una concertazione, è quello della presa d’atto americana che Netanyahu non ha predisposto nulla per il dopoguerra continuando imperterrito ad annunciare per due anni che gli ostaggi sarebbero stati portati a casa e che Hamas sarebbe stato sconfitto, due obiettivi inconciliabili se non praticabili unicamente nella fantasia degli irriducibili ottimisti nonostante l’evidenza contraria. Spem contra spem.

Alla vigilia dell’assegnazione del premio Nobel per la Pace Trump ha voluto il suggello del pian0 coltivando l’illusione che a Oslo sarebbero rimasti particolarmente impressi.

In attesa degli ostaggi e della fine di un incubo per loro e le loro famiglie si cerca in tutti i modi di affermare che la vittoria è stata conseguita, ma appare evidente che questo è solo uno spot pubblicitario nel quale sia Trump che Netanyahu sono maestri.

Nella prospettiva del piano, a Hamas è chiesto di liquidarsi, ovvero di cedere le armi e sparire dalla scena. Sarebbe bello se i trattasse del finale di un film di Frank Capra, la realtà però resta maledettamente complicata e poco incoraggiante. In una Gaza in cui Israele inizia già a retrocedere e nella quale si è impegnato a non riprendere più la guerra, la formazione jihadista responsabile del 7 ottobre, dichiara già che si disarmerà solo e quando dei soldati israeliani ci saranno pochi drappelli e consegnerà le armi solo ai fratelli arabi. Nessuno dotato del minimo senso della realtà riesce a credere che poi, come per miracolo si ritirerà in Svizzera con i forzieri pieni.

Il jihad, di cui Hamas è impregnato, è il nocciolo duro della questione e non ci sono agi o incentivi che possano depotenziarlo, ma solo l’opzione militare, come è stato per Al Qaeda o con l’Isis, il resto sono solo illusioni ad occhi spalancati.

Festeggiamo dunque quando avverrà, il ritorno degli ostaggi, ma dopo la festa si dovrà fare i conti con quel che resta, non del giorno, ma di Hamas, che a Gaza è ancora in sella.

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