Editoriali

Il lavoro non finito

Bisogna credere a Steve Witkoff, l’immobiliarista golfista vecchio amico di Trump, quando dichiara, in una intervista, che l’attacco israeliano in Qatar di settembre, “ci ha fatto sentire traditi”. Witkoff, insieme a Trump, ha una stima incondizionata per la famiglia Al Tahani, il clan ricchissimo che governa il minuscolo emirato e che lo ha salvato dalla bancarotta.

Bisogna evidenziare qui alcune cose per coloro i quali credono ancora o vogliono credere, spem contra spem, che le guerre si vincono quando il nemico non è sconfitto. Una è che no, non è mai accaduto nella storia, e che è inutile, anche se offre una momentanea gratificazione, elencare i successi di Israele in Libano, il colpo inferto all’Iran, la caduta di Assad, le decapitazioni del vertice storico di Hamas, se poi quest’ ultimo a Gaza fa ancora il bello e il cattivo tempo.

Il ritorno a casa degli ostaggi vivi, gli ultimi sottratti all’orrore della loro prigionia, non annulla il fatto puro e semplice che Hamas è operativo. Ma cosa c’entra in tutto ciò il “tradimento” di cui ha parlato Witkoff, cosa c’entra il Qatar?​ C’entrano eccome.

Il fallito attacco in Qatar finalizzato a eliminare i ceffi di Hamas riuniti in una stanza, è stato l’episodio che ha determinato la svolta e la decisione di Trump di obbligare Israele a un accordo con Hamas, dopo averlo già fatto a pochi giorni dal suo insediamento a gennaio di quest’anno che volge al termine, mascherandolo da piano di pace, da faraonica architettura per la nuova Gaza e il nuovo Medioriente.

L’inviolabilità del Qatar, la sua influenza a Washington, sono le linee rosse che Trump non è stato disposto a oltrepassare. Dunque, si è dato vita a un grande show mediatico in cui il presidente americano è stato intronato metaforicamente Re di Israele per un giorno con al suo fianco Netanyahu. La festa per il ritorno a casa degli ostaggi, ha relegato sullo sfondo la realtà che da Gaza, Hamas non ha nessuna intenzione di sloggiare, né adesso né in seguito. Le minacce di Trump di porte dell’inferno di prossima apertura se non ottempereranno all’impegno preso sono meri fuochi di artificio.

Per fare sloggiare Hamas c’è infatti un solo modo, riprendere la guerra, andare fino in fondo, quello che in due anni Israele non ha potuto e saputo fare. Ma Trump non ha nessuna intenzione di farla ricominciare e Netanyahu ancora meno. Ora si incarica l’Egitto, che con Hamas ha sempre chiuso un occhio consentendo contrabbando e scambio di favori, di inviare una coalizione che dovrebbe gestire la situazione a Gaza. Bisogna essere amanti della più acre ironia per suggerire una soluzione simile. Non sarebbe dispiaciuta a Swift. Ma qui non ci sono grandi irlandesi a  darsi da fare, ma immobiliaristi con le mani in pasta in Qatar e in Arabia Saudita (così e tornato sulla scena l’azzimato Jared Kushner), e un presidente amico di Israele, sicuramente, ma stufo di una guerra inconcludente che ha distrutto la reputazione mondiale dello Stato ebraico e sdoganato l’antisemitismo a livelli mai visti post Shoah.

No, Al Sisi non domerà Hamas, e nessuna minaccia servirà a condurlo a disarmarsi e farsi da parte, e nemmeno la ridicola idea di una sua ghettizzazione in una parte di Gaza potrà fuzionare, quando l’organizzazione può contare su un forte radicamento territoriale, su diramate complicità, sulla porosità di una “volonterosa” (siamo seri) coalizione araba.

Il lavoro non finito, che è costato il sacrificio della meglio gioventù israeliana, il lavoro non finito, è solo l’evidenza malconcia di un fallimento che a stento si può nascondere dietro il paravento del ritorno a casa degli ostaggi, e foto di famiglia allargate con tutti dentro, anche i Paesi europei che hanno riconosciuto lo Stato palestinese e che ora salgono sul treno, un treno che comunque è già fermo in stazione.

Il lavoro non finito, dicevamo, deve essere finito, se si vuole, perché non saranno linee gialle, rosse o blu a separare Israele fra qualche anno dal 7 ottobre prossimo.

 

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