Israele e Medio Oriente

La fermezza nel cedimento: Israele umiliato e ricattato

La resa politica ha un volto e un prezzo. Quello che lo Stato d’Israele ha accettato non è un cessate il fuoco: è uno scalcinato compromesso imposto che trasforma la sicurezza nazionale in una contrattazione di retrovia, consegnando al tempo stesso dignità e sangue dei suoi cittadini alle logiche incomprensibili della diplomazia internazionale. Accettare clausole «impossibili» —come il disarmo di Hamas e di Hezbollah— significa firmare una sconfitta strategica già scritta: nessuno dei due movimenti ha alcun interesse reale a smantellare le proprie strutture militari. È pura illusione chiedere ciò che non avverrà mai; è follia politica fingere il contrario. E che dire del progetto di ricostruire la parte che l’IDF controlla e lasciare l’altra ad Hamas? Pura follia e brama di denaro da parte di affaristi senza scrupoli.

Peggio ancora: lo Stato è chiamato a sopportare lo stillicidio di resti dei propri ostaggi, riconsegnati «in pezzi», talvolta irriconoscibili. Le famiglie non ottengono che un’offesa alla memoria dei loro cari. Restituire brandelli di corpi è presentarlo come un risultato umanitario: un insulto che viene venduto come vittoria. E chi osa dire «Israele ha vinto» dovrebbe essere richiamato alla realtà dai lamenti delle madri, dagli abiti impregnati di sangue e dal silenzio degli sforzi mancati.

Sul piano operativo, fonti della sicurezza raccontano che ora i vertici politici stanno per autorizzare il trasferimento di circa 200 combattenti di Hamas presi in sacche nel sud di Gaza dalla zona di Rafah —aree che erano sotto controllo IDF al momento dell’entrata in vigore del cessate il fuoco— verso territori controllati da Hamas, a condizione che depongano le armi. È una misura che ricorda più una capitolazione organizzata che una mossa tattica: spostare i nemici per «ridurre il rischio» per i soldati e agevolare la ricerca dei corpi non è strategia, è rimozione del problema sotto il tappeto.

 

Le reazioni interne sono incandescenti e giustificate. Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e membro del Gabinetto di sicurezza, l’ha definita «una follia assoluta» chiedendo al premier di bloccare la manovra. Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, non ha usato mezze parole: «Uccidete o imprigionate tutti i 200 terroristi che si trovano oltre la linea gialla. Questa è un’opportunità per distruggerli o trattenerli, non per rilasciarli in condizioni ridicole». Sono parole che fotografano il timore di chi vede nel rilascio un regalo strategico agli avversari.

E poi ci sono le famiglie, quelle che non si lasciano imbrigliare dalla retorica diplomatico-mediatica. La famiglia del soldato Efi Feldbaum —ucciso nella zona dove oggi si trovano i sospetti— ha lanciato un appello pubblico: «Non premiate i terroristi». «State di fronte a una prova», hanno detto, «state per prendere una decisione che avrà un impatto decisivo sull’intera nazione. Stiamo svendendo la nostra sicurezza ai mediatori o stiamo garantendo la sicurezza della nazione e il benessere dei nostri soldati?» La risposta richiesta è netta: «O si arrendono o vengono eliminati». Nessuna ambiguità.

A complicare la situazione, e ad aggravare il peso politico di questa resa, c’è il ruolo del Qatar. Doha —principale canale di finanziamento e mediazione per Hamas— ha stretto intese con gli Stati Uniti che la proteggono da potenziali azioni israeliane contro la sua rete di mediazioni. In pratica, il Qatar manovra in una zona franca: media, incassa, protegge i propri strumenti e continua a tirare i fili dietro le quinte e presto tornerà ( se non fa oggi a finanziare i tagliagole). È grazie al crinale mediatico qatarino che alcuni ostaggi sono stati restituiti; ma la restituzione di corpi devastati non è riscatto, è un marchio di vergogna politica.

Chi governa deve ora rispondere di due fatti elementari: primo, perché accettare clausole che chiedono l’impossibile? Secondo, perché accettare il ritorno dei resti come se fosse un successo quando è una ferita aperta per ogni famiglia? Le risposte che arriveranno —se arriveranno— non potranno essere tiepide né tecniche. Questo non è un dibattito accademico: è la prova di affidabilità dello Stato di fronte ai propri cittadini e alle forze che ne minacciano l’esistenza.

La verità scomoda è che Gerusalemme sta barattando sicurezza con diplomazia senza garanzie concrete se non quelle dell’amministrazione americana che con il Qatar si è legata mani e piedi.

Israele sta pagando in lutti non ancora elaborati e in legittimazione mediatica dei suoi nemici senza dimenticare la spaventosa macchina propagandistica messa in campo contro lo Stato ebraico dall’8 ottobre 2023. Questa è una scelta che mette a repentaglio la credibilità delle istituzioni e la fiducia nelle forze che dovrebbero proteggere il Paese. E chi, tra i leader, penserà che questa sia la via della salvezza, pagherà un conto che non si cancellerà con comunicati o con titoli di giornale. Il messaggio delle famiglie e dei comandanti contrari è chiaro e crudele: non sacrificate il futuro sulla bilancia di una tregua priva di smantellamento reale dell’avversario. Perché la tregua, senza smantellare l’apparato militare e politico di Hamas (e senza affrontare la minaccia di Hezbollah), non farà che comprare tempo a chi ha interesse a ricostruire forza e narrazioni. E il tempo sarà pagato in sangue israeliano e in quello degli ebrei sparsi per il mondo.

 

Torna Su