Più passano i giorni, più si evidenzia come la presunta vittoria di Israele, dopo due anni di guerra a Gaza, sia un fallimento militare, come aveva predetto su queste pagine Daniel Pipes, già nell’autunno del 2023, a guerra appena cominciata https://www.linformale.eu/un-probabile-mezzo-fallimento-intervista-con-daniel-pipes/.
I sostenitori della vittoria israeliana si devono basare su ciò che la seconda fase del piano di pace targato Trump afferma, ovvero che Hamas accetterà di disarmarsi e di non avere alcun ruolo politico nel futuro della Striscia. Sono due assunti estremamente problematici e improbabili.
Allo stato attuale Hamas dispone di un effettivo stimato tra i diecimila e i ventimila uomini, non addestrati come le unità precedenti, ma ciò nonostante operativi. Il suo arsenale è stato notevolmente dilapidato ma non è annientato, e dei tunnel ancora in esistenza si calcola che, dopo due anni di guerra, Israele ne abbia distrutto solo il 30 per cento. Appare chiaro che Hamas non è stato sconfitto, ma solo indebolito, come ha evidenziato Greg Roman del Middle East Forum:
“Da un certo punto di vista, Hamas ha subito un degrado catastrofico con l’eliminazione dei vertici, la distruzione della struttura di comando e la riduzione del controllo territoriale a un quarto della Striscia. Da un altro punto di vista, Hamas ha dimostrato una notevole resilienza, reclutando tanti combattenti quanti ne ha persi, mantenendo la coesione organizzativa nonostante la decapitazione della leadership e costringendo Israele ad accettare i negoziati nonostante detenesse solo il 20-25 per cento del territorio prebellico. La questione non è quale interpretazione sia accurata, ma quale sia più importante dal punto di vista strategico. Una Hamas indebolita ma intatta, che sopravvive per tornare a combattere, rappresenta un successo strategico per l’organizzazione, indipendentemente dalle perdite tattiche”.
Ad aggravare lo scenario c’è la precisa volontà americana di chiudere la guerra di concerto con gli Stati arabi. Trump si è mostrato indulgente nei confronti di Hamas per non avere ancora consegnato a Israele tutte le salme degli ostaggi ancora trattenuti a Gaza, adducendo come ragione la difficoltà nel localizzarli.
Ieri, la Knesset ha passato in prima battuta, una proposta di legge che sancirebbe, se approvata definitivamente la sovranità israeliana sull’intera Cisogiordania, una mossa che ha fortemente contrariato Trump, che l’ha giudicata “stupida”, affermando che la sua amministrazione non permetterà mai l’annessione, affermazione già fatta precedentemente, e ribadita a stretto giro dal vicepresidente Vance nella sua visita in Israele. Netanyahu si è affrettato a dichiarare che il voto è privo di sostanza. Un Vance contrariato ha sottolineato che nonostante la sua natura simbolica, si è trattato di uno sgarbo, essendo passato il voto durante la sua visita, di fatto trattando Israele come uno Stato subalterno che deve essere rimesso in carreggiata. Netanyahu ha un bel dire nell’affermare che Israele non sia un “protettorato americano”. La realtà dice il contrario.
Per due anni, il premier israeliano ha annunciato che la vittoria sarebbe consistita nell’eliminazione di Hamas e nella liberazione degli ostaggi, per due anni la guerra si è trascinata senza che venisse mai formulato un piano sulla gestione della Striscia in un ipotetico post Hamas. Il piano è arrivato attraverso Washington e con il consenso arabo e turco, e la firma dell’accordo con Hamas, avvenuta a Sharm el Sheikh e stata siglata con la stretta di mano tra i mediatori affaristi Witkoff e Kushner e gli esponenti del gruppo terrorista. Fu Witkoff, un anno fa, a consigliare Trump di intavolare i negoziati direttamente con i terroristi, infrangendo un protocollo trentennale. A fare da padrini i due grandi sponsor di Hamas, il Qatar e la Turchia.
Israele si è trovato stretto a un angolo, dopo una guerra senza fine, che, alla vigilia dell’assedio a Gaza City aveva registrato il clamoroso dissenso del capo di stato maggiore Eyal Zamir, il quale aveva espresso la sua contrarietà per l’operazione militare.
Appare chiaro che ora che gli ostaggi vivi sono stati rilasciati in blocco, Hamas, privo del suo vantaggio tattico, conti di potere lucrare su protezioni e complicità per continuare a permanere nella Striscia. Suonano poco credibili le solite rodomontate di Trump che se il gruppo non si disarmerà con le buone, dovrà farlo con le cattive, perché questo significherebbe la ripresa della guerra, una guerra che gli Stati Uniti non vogliono si riattivi, essendo il suo obiettivo principale una distensione con il mondo arabo, fondata principalmente sugli ingenti investimenti arabi negli Stati Uniti, e collateralmente anche sulla rete di affari personali (Witkoff, Kushner, il figlio di Trump, Eric) con Qatar e Arabia Saudita. Ma è lo stesso Stato ebraico a trovarsi nella posizione di non volere riprendere una guerra che oltre a essergli costata un alto numero di soldati morti, di mutilati e di feriti, ha distrutto internazionalmente la sua reputazione facendo aumentare gli episodi di antisemitismo a picchi mai raggiunti dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Ciò che si prospetta è dunque uno scenario in cui Israele ottiene di riavere gli ultimi ostaggi vivi e quindi le salme dei defunti, arretrando progressivamente dalle posizioni conquistate, mentre gli autori del 7 ottobre intendono permanere nella Striscia.
Nella medesima intervista del 2023 a Daniel Pipes, alla domanda, “Per quale motivo Israele non ha mai conseguito una vittoria reale contro i suoi nemici palestinesi?”, lo storico americano rispondeva, “Perché non ci ho mai provato. Israele ha sconfitto con successo i suoi stati arabi nemici – Egitto, Giordania e Siria in particolare – ma ha desistito dallo sfruttare il proprio vantaggio contro i palestinesi. Pensiamo al 1982, quando desistette dall’uccidere Yasser Arafat. O nel 1993, quando gli diede il controllo sul territorio confinante. O nel 2005, quando si ritirò unilateralmente da Gaza”.
Aggiungiamo alla lista, il 2025, quando non è stato in grado di eliminare Hamas.