Le vittorie militari della difesa di Israele e la tenace resistenza identitaria del popolo ebraico contro un antisemitismo demoniaco, parossistico, senza precedenti, hanno strappato una svolta politico-diplomatica.
Il piano Trump per la pace in Medio Oriente appare ambivalente: contiene il riconoscimento del diritto di Israele, l’effetto della pressione di alcuni paesi arabi su Hamas, prevede l’estensione degli accordi di Abramo, insieme ad una fragilità strutturale, ambiguità e contraddizioni.
L’adesione di Israele al piano di pace ha mostrato al mondo che lo Stato ebraico vuole la pace, vive per la pace in modo strutturale, comportamentale, mentale-culturale. Anche se il mondo, intossicato dalla valanga quotidiana di odio mortale, non lo vede; ma lo vedono bene gli uomini che restano liberi. Una realtà che ha spiazzato le adunanze fanatiche e violente. Si è ottenuta la liberazione dei pochi ostaggi rimasti vivi, per la gioia ebraica, togliendo al nemico uno strumento essenziale di ricatto. Anche se a un prezzo altissimo: la consegna di tante canaglie e terroristi spietati che di certo ritorneranno in prima fila per la distruzione di Israele.
L’accordo contiene un’alleanza relativa con Israele insieme a una certa imposizione su Israele, contiene l’obbligo (intenzionale) di distruggere ed escludere Hamas, ma anche una sua relativa legittimazione. La retorica trionfalistica di Trump alla Knesset sulla “nuova età dell’oro” e sulla “pace duratura eterna” lasciano il tempo che trovano, è parte integrante di una strategia globale della presidenza USA errata e pericolosa. Una strategia ondivaga, rovinosa, che preferisce accordi di spartizione con i regimi totalitari e autocratici, e subordina, esclude, disconosce gli alleati.
Una strategia che tradisce e ribalta la tradizione democratica degli Stati Uniti a favore della libertà e della democrazia, dei popoli e delle persone, con i suoi decisivi storici contributi alla sconfitta del nazifascismo e del comunismo, e alle offensive contro il terrorismo islamico dopo l’11 settembre.
Mi sembra che si sia creato un paradosso: gli Stati Uniti sono imperiali e imperialisti nella politica di pacificazione di Trump, sono stati invece democratici nell’interventismo antitotalitario e antiterrorista. Il presidente Trump si vanta di essere un ottimo negoziatore con la sua specialità nel “deal”, da praticare come priorità. Invece, nell’adottare criteri commerciali nel campo geopolitico, risulta essere un pessimo negoziatore. Si vanta di ottenere successi con una “diplomazia basata sulla forza”, invece pratica la castrazione della forza e una cattiva diplomazia. Una buona diplomazia si fonda sulla fermezza, deterrenza, capacità difensiva. Come dimostrato dall’ovvio fallimento del fumoso vertice in Alaska, e la pessima preparazione del vertice di Budapest, con l’arci-criminale macellaio di carne umana Putin.
Che per Trump l’Ucraina appartenga alla sfera di influenza russa, nel pieno allineamento con le famigerate posizioni di Putin, è una catastrofe. Costituisce una brutale aggressione politica all’Ucraina e un rafforzamento del fronte totalitario. Trump ha distrutto l’indispensabile alleanza atlantica, espande la guerra commerciale dei dazi contro il libero scambio e il libero mercato, impone la “pacificazione” in luogo della deterrenza. Una pacificazione senza pace, anzi contro la pace. In una politica strategica che ricalca, per certi aspetti, l’appeasement di Chamberlain e della conferenza di Monaco nei confronti del potenziale aggressivo di Hitler, e anche della Ostpolitik nei confronti del comunismo sovietico.
In tale ambito è già tanto che gli accordi di Sharm el-Sheik siano bivalenti, e non pesantemente unilaterali come per l’Ucraina, ed altri atteggiamenti di “pacificazione” verso l’asse del male. Ambiguità e contraddittorietà degli accordi di pace cominciano ad esplodere. Non si è asciugato l’inchiostro della firma solenne che Hamas ha massacrato con ferocissima esibizione, in stile Isis, trecento gazawi dei clan rivali che tentavano di sottrarsi al suo spietato dominio di terrore sadico. Mentre Hamas manovra in modo macabro e disumano sui corpi degli ostaggi massacrati, gli occhi del mondo hanno la possibilità di vedere l’infinita divaricazione tra la prassi della morte selvaggia e la cultura della vita.
Hamas viola di continuo la tregua con attacchi alla linea gialla, uccide soldati di Tsahal. Si può vedere che, appena si sono ritirati i soldati di Israele in osservanza dell’accordo, si è scatenata la macelleria degli arabi di Gaza, come il 7 ottobre è accaduto che appena si è “distratta” la difesa si è scatenato il più selvaggio dei pogrom nella terra-rifugio degli ebrei. Evidenze negate dal fanatismo oscurantista antiebraico dilagante.
Ugo Volli ci dice una verità tanto elementare quanto essenziale, per misurare la dismisura di un anti ebraismo toralizzante, preventivo, assolutista: se un qualsiasi paese del mondo avesse subito un evento tragico come quello del 7 ottobre, tutto il mondo si sarebbe schierato dalla parte degli aggrediti. Invece con Israele è accaduto il contrario, per effetto di quell’antisemitismo con la sua stratificazione plurimillenaria. Anzi, dopo il 7 ottobre diventato più diffuso, violento, capillare.
Il furore estremista abolisce limiti e maschere. In Campania, AVS candida per la Regione una palestinese nazista che vive a Napoli da quarant’anni che proclama il completamento dell’opera di Hitler per la sorte degli ebrei.
Giuliano Ferrara, nel suo intervento lucido e fervido al convegno dell’UCEI nella sede del CNEL il 12 ottobre, ha chiarificato in modo netto, con audacia controcorrente. La guerra a Gaza è tragica perchè inevitabile, necessaria, senza alternative, “l’inevitabilità è il cuore della tragedia”. La liberazione degli ostaggi è il risultato dell’azione politica del governo di Israele, attraverso l’impiego delle forze armate, con il loro coraggio e abnegazione; merito anche della maggioranza politica di Israele, che ha coinvolto in via temporanea costole del centro-sinistra o centriste, mentre altre volte sono emersi “i ministri della cosiddetta destra oltranzista o messianica, che poi destra messianica non si capisce bene perché lo si dica, perché insomma essere ebrei e essere messianici è la stessa cosa” […] “tutto questo è avvenuto diciamo in una situazione in cui i paesi arabi, i grandi sunniti del sud, protestavano formalmente ma non facevano nulla di concreto, di sensibile, di tangibile per impedire il corso delle cose”.
Al di là delle polemiche sui conteggi dei morti, è sicuro che tutte le vittime della guerra sono vittime di Hamas, “vittime morali e strategiche di Hamas”, che ha detto che gli arabi devono morire per la causa palestinese, che è un sacrificio necessario, lodevole. “E sono stati sacrificati. Israele difende con le armi il suo popolo, loro difendono con il loro popolo le loro armi”. Per Ferrara, gli sterminazionisti selvaggi di Hamas sono peggio che terroristi, “terroristi è poco ed è sbagliato” (forse manca il termine adeguato per definire l’indicibile disumanità di questi mostri).
Mi chiedo da dove viene questa straordinaria forza d’animo, coraggio, serenità, resistenza identitaria del popolo ebraico di fronte alle persecuzioni plurimillenarie, alle stragi periodiche, a tutto l’odio del mondo attuale. Ho partecipato alla festività più sacra di tutte, giorno di gioia eterna, Simkhat Torà, nella sinagoga di Napoli. Questa festa conclude e riapre il ciclo della lettura della Torah, onore affidato a due khatanim (sposi) seguiti da sette giri gioiosi.
Mi ha coinvolto la purezza, nobiltà, intensità spirituale, felicità corporale, vitalità del Patto con Dio. Ho sentito cantare il più luminoso e bello Shemà Israel mai sentito. Un canto che sale al cielo, il cielo discende tra noi. Una liturgia che si ripete sempre uguale da millenni e si rinnova ogni volta. E così mi sono dato una risposta: viene da qui, questa radice-albero di santità, da questa vivente indistruttibile forza identitaria, da questo orgoglio rafforzato dalle persecuzioni e maledizioni, da questo sereno essere se stessi, da questo essere diversi dagli altri e al tempo stesso fraterni verso gli altri. Non vi dico l’emozione del canto dell’Hatikvah.
Potenza etica di una radice e di un albero, un’esistenza nella resistenza, una resistenza da un’esistenza, valori permanenti che attraversano i millenni per raggiungere un futuro.