Israele e Medio Oriente

Perché a Gaza non è in corso un genocidio

Le parole hanno un’essenza peculiare e fondante nel vissuto quotidiano e non devono essere utilizzate né con enfasi, né con disonestà, né con accattivante captatio benevolentiae, né in modo strumentale e conveniente per una parte, mai in modo tale da provocare gravi conseguenze senza la possibilità di venirne mai più a capo. 

Per quel che concerne il contenuto della parola «genocidio» (dominante nell’utilizzo in ogni forma d’informazione e non solo), abbiamo un riferimento riconosciuto dalla comunità internazionale e, dunque, un elemento di certezza su come definire e quando riconoscere che si è in presenza di un crimine aberrante come questo. Parliamo della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, con la data di adozione del 09.12.1948 e la sua entrata in vigore il 12.01.1951, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione 260 (III) A, del 9 dicembre 1948. Necessaria è a questo punto l’enucleazione dei fatti e delle azioni che vengono ritenuti conditio sine qua non per la prefigurazione di un genocidio (qui, sui diciannove articoli della Convenzione, vengono considerati soltanto i primi tre), si segnala ciò che le Alte Parti contraenti hanno concluso: 

considerando che lAssemblea Generale delle Nazioni Unite, nella Risoluzione 96/1. dell11 dicembre 1946 ha dichiarato che il genocidio è un crimine di diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini delle Nazioni Unite e condannato dal mondo civile; 

riconoscendo che il genocidio in tutte le epoche storiche ha inflitto gravi perdite allumanità; 

convinte che la cooperazione internazionale è necessaria per liberare lumanità da un flagello così odioso, 

convengono quanto segue: 

(Articolo I.) Le Parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed a punire. (Articolo II.) Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con lintenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi allintegrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite allinterno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro. (Articolo III.) Saranno puniti i seguenti atti: a) il genocidio; b) lintesa mirante a commettere genocidio; c) lincitamento diretto e pubblico a commettere genocidio; d) il tentativo di genocidio; e) la complicità nel genocidio. 

Questa premessa è doverosa per cercare di definire più correttamente se in questi due anni di guerra nella Striscia di Gaza si possa parlare di un’azione militare dello Stato di Israele che abbia come finalità il genocidio deei palestinesi residenti a Gaza. La parola «genocidio» è stata usata, nel caso della guerra fra Hamas e Israele (dopo l’eccidio perpetrato il 7 ottobre contro civili inermi dei kibbutz e di giovanissimi in un festival musicale per mano dei terroristi di Hamas e la reazione successiva di Israele che ha invaso la Striscia di Gaza manu militari), per la prima volta dal Sud Africa già nel dicembre del 2023 quando ha presentato la sua istanza con questa accusa davanti alla Corte di Giustizia Internazionale, ed è stato poi ripreso da Francesca Albanese, che dal 2022 è relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati.

Di importanza fondamentale è chiarire l’origine «attuale» di «questa guerra» e non dell’intero contesto di guerre e scontri fra palestinesi e israeliani. La guerra di questi due anni risulta essere complessa e assolutamente originale nel contesto planetaro. Pertanto attenendoci a questo momento specifico, senza addentrarci nella storia labirintica del conflitto durante gli anni, è necessario decifrare quello che è accaduto nell’attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre, del perché sia avvenuto in questo lasso di tempo, in quali modalità è stato progettato e attuato.

Appare più che provato che l’attacco dei terroristi di Hamas del 7 ottobre si sia verificato con intento genocidiario, perché l’attacco è avvenuto soprattutto su civili inermi e non «semplicemente» su avamposti militari. La prima condizione consiste nel piano progettato da molto tempo, al fine di indebolire la superiorità militare e politica dello Stato di Israele nel Vicino Oriente, da parte dell’Iran, maggior antagonista geopolitico dell’area interessata. Questo Paese per storia, tradizioni culturali e posizione geografica rappresenta un pilastro nel Vicino Oriente che ha subito con la Rivoluzione del 1979, poi mutatasi in rivoluzione islamica sciita duodecimana per la mutazione operata da parte dell’azione politica e militare dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, una deriva estremista in termini islamisti. Fino a quel punto i due Stati oggi antagonisti vivevano di buone relazioni e di una ferrea collaborazione su tutti i campi.

L’Iran ha investito miliardi di dollari ed energie inusitate per la formazione di un «asse», definito eufemisticamente di «resistenza», con una serie di Stati al fine di rafforzare il suo progetto di attacco e indebolimento di Israele, finalmente realizzando una «guerra» per procura sul suolo israeliano. Una delle origini del conflitto attuale consiste nello scontro, originariamente non frontale, fra Israele e Iran. Inoltre, quest’ultimo, ha finanziato sacche di combattenti dediti al terrorismo internazionale e alla difesa dei singoli progetti di espansione, sempre e assolutamente in chiave islamista. Fra gli Stati vanno annoverati lo Yemen, la Siria, in parte l’Iraq e il Libano, soprattutto nelle formazioni degli Hezbollah che geograficamente sono posizionati nel sud del Paese. A Gaza in particolare il flusso di denaro, armamenti e ogni tipo di equipaggiamento per una guerra lunga di logoramento contro Israele è stato meticolosamente costruito e finanziato senza badare a spese.

La capacità offensiva di Hamas è una delle più potenti dell’area, i tunnel a protezione delle attività terroristiche sono di dimensioni inverosimili per lunghezza e abitabilità (si stimano circa 750 chilometri di gallerie), la forza finanziaria del gruppo terroristico è stimato in decine di miliardi, le connessioni in termini di relazioni con Stati e altre forze terroristiche un fattore unico. L’Iran non nasconde il sogno di annientare Israele e distruggerlo, ancora oggi, avendolo percepito come possibile in questo momento e in questo contesto così come si evince con estrema chiarezza anche nei due statuti costitutivi del gruppo terroristico di Hamas, dove si professa la completa distruzione degli ebrei e del loro Paese seppur con qualche dubitabile differenza fra i due testi. La valutazione dell’ayatollah Alì Khamenei non solo è stata errata e strategicamente deficitaria nella costruzione del cosiddetto asse della resistenza al nemico sionista, ma ha condotto il proprio Paese in una crisi economica, sociale e valoriale senza precedenti.

Dunque un espresso volere genocidiario contro Israele viene manifestato da più forze militari e, addirittura, da Stati riconosciuti all’interno del consesso internazionale, in particolare l’Iran, che ha posizionato anche un orologio digitale gigantesco nel bel mezzo di una piazza del centro di Teheran dove si scandiscono i giorni rimanenti alla cancellazione di Israele. A queste dottrine distruttive e al tentativo di genocidio con la persecuzione individuale e l’uccisione, lo stupro e la tortura, di inermi civili di nazionalità ebraica e, infine, il rapimento di civili attuando un crimine di guerra senza precedenti, avvenuto il 7 ottobre del 2023, Israele ha deciso di rispondere con veemenza. Non deve trarre in inganno la superiorità militare e informatica di quest’ultimo, perché questo Paese, come già era capitato nella Guerra dei sei giorni, ha ingaggiato uno scontro militare almeno su 7 fronti: ricordiamo i danni subiti, ingenti, dai missili di ultima generazione iraniani che in parte hanno penetrato la difesa “contromissilistica” israeliana terrorizzando le città inclusa Tel Aviv.    

Questa dinamica tuttavia potrebbe non essere sufficiente nel ritenere che Israele avrebbe dovuto, in modo «giustificato» e legittimo, reagire a un tentativo di genocidio con un altro tentativo di genocidio. Infatti da parte di Israele non vi è mai stato un tentativo di genocidio, perché i maggiori protagonisti politici e militari del gruppo terroristico di Hamas hanno più volte dichiarato, in ogni contesto e sui maggiori mezzi di comunicazione, che il sangue dei bambini, delle donne, dei civili usati come scudi umani nella guerra scatenata contro gli israeliani è strumentale alla vittoria su Israele. È questo un punto decisivo.

Dunque Hamas ha deciso di condurre la propria guerra considerando il proprio popolotutto – uno strumento di guerra alla stregua di un kalashnikov o di qualsiasi altro mezzo di offesa. Se questa è la strategia scelta da Hamas, il punto non è più definire «genocidio» un’azione di guerra di difesa (questo elemento nega elementi genocidiari da parte di chi si difende), ma capire se Israele è «colpevole» di non aver considerato il dramma umano ed etico di rischiare l’uccisione di migliaia di civili seppur consapevolmente e volontariamente sacrificati dai terroristi di Hamas. Israele dunque ha scelto l’opzione di accettare una guerra asimmetrica, la più difficile mai combattuta fino ad ora, fra i dedali di città costruite su una ramificata estensione di tunnel. Per questo primo elemento infatti non è possibile parlare di volontà genocidiaria, ma di accettazione del rischio di uccidere migliaia di civili con i relativi dubbi a livello umanitario di questa azione di difesa.

Il secondo punto richiamato all’interno del secondo articolo della succitata Convenzione, circa la previsione di un genocidio in atto, è da dedurre dalla «intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale». Elemento impossibile da accogliere nel suo significato pregnante in quanto Israele vanta qualità indiscutibili circa i livelli di integrazione di individui arabi di religione musulmana, sul proprio territorio, per un numero di circa 2 milioni di persone. Sarebbe difficile immaginare, perché inesistente, un impegno di Israele alla persecuzione di un gruppo etnico-religioso sul proprio territorio dove molti rappresentanti di tale gruppo occupano ruoli rilevanti nelle università, accademie, in parlamento e, addirittura, nelle IDF.    

Il terzo punto contestabile nell’accreditamento del crimine di genocidio, in base a quanto affermato nella Convenzione, riguarda «il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale». Tale distruzione in atto è resa inevitabile dalle condizioni strategiche di un intervento militare davvero ai limiti della «praticabilità», spesso documentate dall’impedimento da parte dei terroristi di Hamas di lasciare liberi di migrare i civili dalle aree di maggiore intensità degli scontri: inoltre questi ultimi si mescolano con azioni anche violente alla popolazione civile, volontariamente, per sfuggire alla loro individuazione, e addensano la concentrazione di cellule di combattenti all’interno delle scuole, delle zone definite umanitarie, nei siti di culto e, addirittura, fatto gravissimo, nelle strutture sanitarie. La prova più evidente è quella dell’attraversamento di un tunnel sotto l’Ospedale Europeo, dove venne ucciso con un bombardamento mirato il fratello di Yahia Sinwar, insieme a una moltitudine di suoi sodali. Dunque, Israele, anche in questo caso non ha bombardato con l’intento di distruggere un ospedale, mosso cioè da intenzioni genocide, ma si è preso il rischio e ha assunto su di sé la responsabilità che in questa operazione l’ospedale venisse distrutto. Di questa responsabilità e rischio è legittimo discutere, così come della sua opportunità e necessità, ma non dell’intenzione di attuare un genocidio.

Da segnalare come quarto punto in considerazione a quanto stabilisce la Convenzione è che, nonostante la durezza del conflitto e le condizioni di vita proibitive sul terreno, non può non essere considerato come intenzione genocidaria la volontà di assumere «misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo».

Nelle statistiche pubblicate da canali e mass media ostili all’azione militare di Israele si smentisce tale volontà. Si può prendere come riferimento la diffusione della notizia, comunque a sfavore del conflitto «tutto» a carico di Israele, che nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre siano venuti al mondo «migliaia di bambini nati in condizioni al di là dellimmaginabile da quando è scoppiata la guerra. Lo sostiene lOnu, utilizzando una formula che spiega come la guerra abbia stravolto oltremodo la vita delle famiglie della Striscia» (Più di 20 mila bambini sono nati a Gaza dall’inizio della guerra (in condizioni strazianti)). La stima di nascite in numero, dopo il 7 ottobre, è infatti di circa 20.000 bambini. Neppure è stato mai segnalato il trasferimento di bambini da un gruppo all’altro nel tentativo di cancellarne la loro identità e provenienza etnica.  

Non solo questi punti esaminati individualmente negano chiaramente l’attività volontaria nel provocare un genocidio a Gaza. Bisognerebbe chiedersi perché le università americane dove studiano i figli delle élite economiche e finanziarie, una moltitudine di docenti universitari e membri accreditati delle accademie, la sinistra radical, i movimenti arcobaleno e quelli orbitanti sotto la sfera della cultura woke, siano concordi nel condannare Israele, accusandolo di genocidio. E perché in molti siano «violentemente» inclini a odiare l’Occidente nei suoi valori di suprematismo bianco”, definito coloniale e capitalista, nell’ottica di una difesa acritica di Hamas. Un errore storico senza precedenti che si riassume nella confusione di intravedere, in un gruppo di terroristi oscurantisti, un movimento di liberazione, addirittura paragonandolo ai partigiani italiani liberatori dal nazifascismo. Un elemento quest’ultimo che offende la storia e il valore etico della Liberazione dal nazi-fascismo. Di questa fascinazione per il mondo islamista, appare permeata la relatrice Onu, Francesca Albanese, che ha definito «meravigliosa» l’azione amministrativa, politica e militare nella Striscia di Gaza del gruppo terroristico di Hamas. Considerando l’ambito diplomatico-internazionale in cui agisce Albanese, fa specie certificare che la funzionaria abbia preso una posizione, schierandosi per una parte del conflitto: la sua relazione sui territori occupati avrebbe dovuto essere considerata come un testo di studio e di accertamento e come strumento di un possibile intervento nell’ambito dell’azione Onu, in modo assolutamente «terzo» e senza una presa di posizione specifica e individuale così netta. Non solo una questione di deontologia, ma anche di valutazioni errate, nella considerazione che Hamas amministra la Striscia di Gaza, «democraticamente eletto», torturando, stuprando, incarcerando abusivamente tutti gli oppositori interni ed esterni al movimento. Si ricorderà che dopo essere stato «democraticamente eletto», Hamas e i suoi affiliati hanno ucciso e perseguitato «casa per casa» i militanti del movimento opposto, Al-Fatah, candidatosi alle elezioni, scacciandoli dal territorio. Che gli stipendi ai propri commilitoni e alle proprie famiglie vengono pagati con taglieggiamenti e commerci illegali di ogni genere di cose, come ad esempio beni alimentari donati dalla comunità internazionale al mercato nero.

A Gaza non si muove un filo d’erba senza il volere di Hamas, che ha utilizzato strutture della cooperazione internazionale per i propri introiti con commerci illegali e spartizioni mafiose all’interno della Striscia. Non consideriamo più profondamente in queste dinamiche malavitose (eccome se andrebbero specificate meglio), le attitudini del gruppo al mancato rispetto dei diritti delle donne, degli omosessuali, dei diversi, dei dissidenti, come da statuto anche dei comunisti, degli anarchici, delle ideologie “corrotte” dell’Occidente ai quali molti dei propal si ispirano in terra propria e a tutte le religioni che non siano riconducibili all’islam. In questo luogo franco, per Hamas, si compiono efferati delitti taciuti dalla comunità internazionale e dalla Albanese, che in un report più equilibrato avrebbe dovuto almeno citare gli effetti sulla popolazione palestinese delle «meravigliose» doti amministrative di Hamas. Hamas non è un movimento «semplicemente» di liberazione, come Albanese vorrebbe farci credere, ma un gruppo di terroristi efferati che vuole instaurare una teocrazia sunnita di stampo wahabita con aspirazioni oscurantiste che conducono dalle pene corporali alle uccisioni esemplari in pubblico. La “liberazione” della “Palestina” significa, per il gruppo fondamentalista islamico, null’altro che la sua soggiogazione a un regime islamico teocratico.

 

Torna Su