Israele e Medio Oriente

Perché Marwan Barghouti non è il Mandela palestinese

Da più di vent’anni, Marwan Barghouti è il detenuto più celebre delle carceri israeliane. Per molti palestinesi rappresenta l’immagine della resistenza: l’uomo che paga con la libertà la lotta per uno Stato indipendente. In Occidente, alcuni lo descrivono come una sorta di Mandela palestinese, un leader carismatico ingiustamente imprigionato. Ma dietro l’aura mitica costruita attorno al suo nome, si nasconde una realtà molto diversa. Barghouti non è un prigioniero di coscienza, ma un politico condannato per terrorismo e complicità in omicidio.

Nel 2004, un tribunale israeliano lo ha riconosciuto colpevole di cinque omicidi e di aver orchestrato numerosi attacchi contro civili durante la Seconda Intifada. Non si è trattato di atti simbolici o di ribellione civile, ma di azioni sanguinose in cui morirono israeliani disarmati. Le prove, raccolte in anni di indagini, indicano che Barghouti – allora comandante delle Brigate al-Aqsa, ala armata di Fatah – autorizzò e finanziò attentati mirati. È per questo che la sua condanna non può essere equiparata a quella di un dissidente politico incarcerato per le proprie idee.

Durante la Seconda Intifada, Barghouti divenne uno dei principali promotori della violenza come strumento politico. Mentre l’Autorità Nazionale Palestinese cercava un difficile equilibrio tra diplomazia e pressione popolare, lui sostenne apertamente l’uso delle armi come «legittima resistenza». Non prese mai le distanze dagli attentati suicidi, anzi li giustificò come risposta naturale all’occupazione israeliana. Una scelta che contribuì a trascinare il conflitto su un piano di vendette reciproche e portò a una delle fasi più sanguinose nella storia recente della regione.

L’immagine eroica di Barghouti resiste perché risponde a un bisogno: quello di un simbolo. In un panorama politico palestinese diviso tra la corruzione di Fatah e l’integralismo di Hamas, la sua figura viene percepita come una terza via, un punto di riferimento morale. Ma questa percezione è frutto di una costruzione retorica più che di fatti. Barghouti non è mai stato un unificatore. Dentro Fatah, rappresenta la corrente più radicale, in costante opposizione a Mahmoud Abbas. Per Hamas, invece, è un’icona utile da brandire contro l’Autorità Palestinese, non un interlocutore reale: è laico, nazionalista e politicamente ingombrante. La sua popolarità, alimentata da anni di detenzione, ha creato un mito funzionale a molti interessi. I sostenitori di Fatah lo evocano per rilanciare la legittimità di un movimento in declino; Hamas lo utilizza come pedina propagandistica per dimostrare che l’unità palestinese è possibile solo al di fuori dell’attuale leadership. E una parte dell’opinione pubblica occidentale – sempre incline a romanticizzare la causa palestinese – lo esalta come «il Mandela del Medio Oriente», ignorando che Mandela non ordinò mai attentati contro civili.

A differenza del leader sudafricano, Barghouti non ha mai espresso un messaggio di riconciliazione. Non ha rinnegato la violenza, non ha chiesto perdono per le vittime e non ha mai proposto una visione concreta di coesistenza. Anche nei rari messaggi inviati dal carcere, si è limitato a reiterare parole d’ordine ideologiche, accusando Israele di “apartheid” e invocando la “resistenza fino alla vittoria”. Nessuna autocritica sugli errori della Seconda Intifada, nessuna riflessione sul fallimento politico di Fatah, nessun riconoscimento delle responsabilità interne nella crisi palestinese.

I veri leader storici si distinguono per la capacità di trasformare la sconfitta in un progetto, di educare il proprio popolo alla speranza e non all’odio. Barghouti, al contrario, resta prigioniero di un linguaggio che giustifica il passato e impedisce qualsiasi futuro. È diventato un simbolo statico: utile per chi ha bisogno di un martire, ma inutile per chi sogna uno Stato palestinese libero e democratico. In fondo, il mito di Barghouti dice molto più della crisi della leadership palestinese che del suo eroismo personale. Quando un popolo ridotto all’impotenza politica trasforma un detenuto condannato per terrorismo nel suo punto di riferimento morale, significa che non riesce più a produrre una classe dirigente capace di visione e responsabilità.

Marwan Barghouti non è un Mandela, perché Mandela scelse il perdono come arma politica, mentre lui scelse la violenza. Non è un eroe della libertà, ma l’emblema di una causa che si è smarrita nella spirale della vendetta. Finché il suo mito continuerà a sostituire il dibattito politico, la Palestina resterà prigioniera non solo di Israele, ma anche delle proprie illusioni.

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