Diritto e geopolitica

“Deliri”, menzogne e verità

Il 26 aprile scorso, in occasione dell’anniversario della Conferenza di Sanremo del 1920, ho tenuto una relazione in merito alla sua importanza e al suo fondamentale contributo per la creazione del moderno Stato di Israele. Poco dopo, sul sito La luce, ha visto la luce (mi si consenta il gioco di parole) un lunghissimo articolo dal titolo enfaticamente teatrale: “Cade la maschera con la conferenza genocidaria di Amici di Israele: analisi, confutazione e denuncia”, il cui scopo è di smontare quello che l’anonimo autore definisce un “delirio”, cioè la mia tesi sulla piena legittimità di Israele sul territorio mandatario. Qui metto il link.  

https://www.laluce.news/2025/04/26/cade-la-maschera-con-la-conferenza-genocidaria-di-amici-di-israele-analisi-confutazione-e-denuncia/

Ne riporterò alcuni passaggi: 

«[…] Il cuore dell’argomentazione ruota intorno all’uti possidetis juris. Elber lo presenta come un principio “universale” che congelerebbe le frontiere coloniali al momento della nascita di un nuovo Stato, legittimando retroattivamente l’annessione israeliana della Cisgiordania. Ma omette due elementi decisivi: 

La stessa Corte Internazionale di Giustizia, nei casi Burkina Faso/Mali (1986) e Kosovo (2010), ha chiarito che l’uti possidetis tutela la stabilità solo in assenza di un conflitto armato d’occupazione e non prevale sul diritto di autodeterminazione; 

Nel 1967 Israele non si trovò di fronte a un confine “amministrativo” ereditato dal Mandato, bensì a una linea d’armistizio riconosciuta internazionalmente, rispetto alla quale è – dal punto di vista giuridico –potenza occupante. 

Con questo il delirio di Elber è già smontato. […]». 

Nonostante il mio deliro sarebbe in questo modo confutato, l’autore o gli autori, invece di passare ad altro, proseguono per ulteriori diciannove pagine a tentare di confutare altri assunti, che non contro-confuterò perchè mi è del tutto sufficiente mostrare l’inconsistenza delle loro argomentazioni principali, il resto, per dirla col Poeta, discende per li rami. Voglio comunque ringraziare Davide Piccardo e soci per avermi dedicato una attenzione così meticolosa. Si tratta di un segno tangibile di come in ambito propal ciò che affermo e scrivo risulti scomodo e indigesto e…pericoloso. Ma procediamo.

L’asserzione che io voglia legittimare “retroattivamente l’annessione israeliana della Cisgiordania” è totalmente errata: in realtà ciò che asserisco è che Israele, fin dal 1948, ha il titolo legale sulla Giudea e Samaria e quindi non ha bisogno di annettere alcunché, per il semplice motivo che quei territori sono già legalmente suoi e proprio in base al principio dell’uti possidetis iuris.

Io lo presento come un principio universale semplicemente perché esso è il principio universalmente accettato dagli Stati per creare i confini dei nuovi Stati senza ricorrere a guerre, e questo fin dal XIX secolo come confermato anche dalla Corte di Giustizia Internazionale. A riprova di ciò porterò proprio l’esempio suggerito nell’articolo pubblicato da La Luce.

Sentenza ICJ Burkina Faso/Mali (1986) 

Para 20: « Va notato che il principio di uti possidetis sembra essere stato invocato e applicato per la prima volta nell’America spagnola, in quanto questo fu il continente che per primo assistette al fenomeno della decolonizzazione, che portò alla formazione di più Stati sovrani su territori precedentemente appartenenti a un unico Stato metropolitano. Tuttavia, il principio non è una norma speciale che si applica esclusivamente a uno specifico sistema di diritto internazionale. È un principio generale, logicamente connesso al fenomeno dell’ottenimento dell’indipendenza, ovunque si verifichi. Il suo scopo evidente è quello di impedire che l’indipendenza e la stabilità dei nuovi Stati siano messe a repentaglio da lotte fratricide provocate dalla contestazione delle frontiere in seguito al ritiro della potenza amministratrice.»   

Poi oltre, nella sentenza, si legge:  

Para 21: «Fu per questo motivo che, non appena il fenomeno della decolonizzazione, caratteristico della situazione nell’America spagnola del XIX secolo, apparve successivamente in Africa nel XX secolo, il principio dell’uti possidetis, nel senso sopra descritto, cominciò a trovare applicazione. Il fatto che i nuovi Stati africani abbiano rispettato i confini amministrativi e le frontiere stabiliti dalle potenze coloniali non deve essere visto come una mera pratica che contribuisce alla graduale affermazione di un principio di diritto internazionale consuetudinario, limitato nel suo impatto sul continente africano come lo era stato in precedenza per l’America spagnola, ma come l’applicazione in Africa di una norma di portata generale.» 

Più chiaro di così non ci si potrebbe esprimere. Il grassetto nel testo è mio. Ho sottolineato in questo modo i passaggi più importanti espressi nella sentenza della Corte di Giustizia Internazionale. Riporto nuovamente i concetti più importanti formulati: «Il suo scopo [dell’uti possidetis iuris] evidente è quello di impedire che l’indipendenza e la stabilità dei nuovi Stati siano messe a repentaglio da lotte fratricide». In pratica, la sentenza conferma in modo cristallino che l’integrità territoriale prevale sulle rivendicazioni di autodeterminazione. Inoltre, «…Il fatto che i nuovi Stati africani abbiano rispettato i confini amministrativi e le frontiere stabiliti dalle potenze coloniali non deve essere visto come una mera pratica che contribuisce alla graduale affermazione di un principio di diritto internazionale consuetudinario, limitato nel suo impatto sul continente africano come lo era stato in precedenza per l’America spagnola, ma come l’applicazione in Africa di una norma di portata generale.».

Come si evince chiaramente dalla frase i confini, anche se frutto di suddivisioni coloniali che nulla hanno a che vedere con i diritti delle popolazioni locali o con l’autodeterminazione dei popoli, sono una norma di portata generale in Africa come altrove. Essendo «norma di portata generale» sono diritto internazionale accettato come recita l’articolo 38 dello Statuto della Corte di Giustizia Internazionale: «… la consuetudine internazionale, come prova di una pratica generale accettata come diritto».

Questa sentenza è calzante nel caso di Israele, anche se ogni caso pone delle proprie peculiarità, perché tale sentenza ci offre la possibilità di capire come il principio generale dell’uti possidetis è quello universalmente accettato nel diritto internazionale. L’autore de l’articolo de La Luce confonde un principio basilare dell’uti possidetis iuris: non lo si può evocare quando si vuole ma unicamente nel momento dell’indipendenza di uno Stato, cioè esso “scatta una fotografia” dei confini del nuovo Stato nel momento in cui esso proclama la propria indipendenza e non anni dopo. Quindi, tale principio si deve applicare ad Israele al momento della proclamazione della propria indipendenza nel maggio del 1948 e non nel 1967. Il 1967 è data arbitraria che non ha alcuna valenza sull’impianto del principio. E fin dal 1948 i confini erano chiari: i confini del Mandato per la Palestina propriamente detto, cioè tutto il territorio ad ovest del Giordano visto che la sua parte orientale comunemente denominata Transgiordania era stata resa indipendente dai britannici nel 1946. Invocare dei principi di autodeterminazione a posteriori è del tutto irrilevante, così come non l’ha avuta nel caso della Kraijna o del Nagorno Karabakh anche in presenza di referendum secessionisti.

Altro caso similare è quello del Kurdistan iracheno dove nel 2017 si tenne un referendum per la proclamazione della propria indipendenza. Tale referendum non fu riconosciuto legale dal governo di Baghdad e per questo motivo non è stato riconosciuto valido dalla comunità internazionale proprio in virtù del principio dell’uti possidetis. Sempre nel 2017 si sarebbe dovuto tenere un referendum sulla secessione della Catalogna dalla Spagna ma tale tentativo fu annullato dal tribunale costituzionale spagnolo. L’unico risultato concreto fu il mandato d’arresto per Carles Puigdemont allora Presidente della Generalitat de Catalunya e promotore dell’autodeterminazione del popolo catalano. Nessun Stato democratico ha mai condannato la Spagna per questo, anzi, tutti si sono schierati con il governo di Madrid. Infatti, non esiste nessun caso al mondo che anteponga le rivendicazioni di autodeterminazione al diritto di integrità territoriale di uno Stato, con buona pace del mio “confutatore”.

Il Caso Kosovo è molto più complesso e ben poco si avvicina a quello di Israele.

Il Kosovo è amministrato dal 1999 dalla NATO per conto dell’Onu a seguito della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. Tale amministrazione non annulla il diritto di sovranità territoriale della Serbia, ma ne limita l’amministrazione che da allora è assunta da un forza internazionale, come è ben specificato nel preambolo della 1244: «Reaffirming the commitment of all Member States to the sovereignty and territorial integrity of the Federal Republic of Yugoslavia and the other States of the region, as set out in the Helsinki Final Act and annex 2,».    

Come è chiaramente spiegato nel citato paragrafo, oltre ad altre numerose parti della Risoluzione 1244, neanche il Consiglio di Sicurezza ha il potere di annullare la sovranità territoriale di uno Stato in parte del suo territorio. Anzi ribadisce la sua inviolabilità. 

Entrando in merito al caso Kosovo, per prima cosa, è da sottolineare che esso non è una sentenza della Corte ma solamente un parere consultivo (che non costituisce diritto internazionale). Il suddetto parere (Advisory opinion of the International Court of Justice on the accordance with international law of the unilateral declaration of independence in respect of Kosovo) non entra nel merito della rivendicazione di autodeterminazione kosovara. Infatti, nell’affrontare la rivendicazione secessionista del Kosovo, la Corte Internazionale di Giustizia ha eluso la questione: nella sua opinione, la Corte ha dichiarato esplicitamente di non voler affrontare la questione se il Kosovo avesse diritto alla statualità o della portata del diritto all’autodeterminazione. A riprova di ciò si riporta in originale quanto dichiarato dalla Corte in para 56 della sua opinione: «It follows that the task which the Court is called upon to perform is to determine whether or not the declaration of independence was adopted in violation of international law. The Court is not required by the question it has been asked to take a position on whether international law conferred a positive entitlement on Kosovo unilaterally to declare its independence or, a fortiori, on whether international law generally confers an entitlement on entities situated within a State unilaterally to break away from it.» (il corsivo è mio).

In pratica la Corte si è espressa unicamente sulla dichiarazione di indipendenza senza entrare nel merito della questione del diritto di autodeterminazione e quindi della legalità della secessione dalla Serbia. Pertanto, sebbene il Kosovo abbia rivendicato come una vittoria tale opinione, il parere della Corte non ha affermato il diritto del Kosovo alla statualità o, più in generale, al diritto all’autodeterminazione ma ha unicamente affermato che la dichiarazione di indipendenza non viola il diritto internazionale di per sé. Più oltre la Corte non esprime alcun parere in merito allo Status finale del Kosovo: «the Court observes that Security Council resolution 1244 (1999) was essentially designed to create an interim régime for Kosovo, with a view to channelling the long-term political process to establish its final status. The resolution did not contain any provision dealing with the final status of Kosovo or with the conditions for its achievement.». Il grassetto è mio

Ma si può anche aggiungere altro. Nel formulare questo parere ben 5 giudici (Slovacchia, Sierra Leone, Russia, Nuova Zelanda e Marocco) si sono dichiarati contrari al fatto che la Corte si esprimesse in materia non ravvisando la sua competenza. Per di più il giudice Koroma (Sierra Leone) nella sua opinione ha affermato che la sovranità territoriale degli Stati è inviolabile: «Nemmeno i principi di uguaglianza dei diritti e di autodeterminazione consentono lo smembramento di uno Stato esistente senza il suo consenso.» (paragrafo 22 della sua opinione dissenziente)

In conclusione anche questo caso presentato dall’articolista de La Luce come “elemento decisivo” per stabilire la prevalenza dell’autodeterminazione sul principio dell’uti possidetis è del tutto inconsistente visto che la Corte stessa, nel suo parere, ha escluso categoricamente di entrare nel merito della questione di secessione e quindi dell’autodeterminazione, mentre ha chiarito che è entrata nel merito della legalità della dichiarazione in quanto tale.

Per quanto concerne la frase dell’articolo che descrive Israeledal punto di vista giuridico –potenza occupante.” Anche qui l’autore ha preso un’ altra cantonata: dal punto di vista giuridico Israele non occupa niente, ed è inutile invocare le miriadi di risoluzioni dell’ONU perché sono del tutto prive di valenza giuridica come stabilito dal Trattato di San Francisco del 1945, con il quale veniva istituita l’Onu con competenze ben chiare tra le quali non figura quella di produrre norme di diritto internazionale. Ciò è anche confermato nell’articolo 38 della Corte di Giustizia Internazionale, dove sono elencate le fonti del diritto e tra le quali non compaiono le risoluzioni dell’Onu.

Quella di indurre a credere che l’ONU sia una agenzia per la produzione di norme del diritto internazionale è una manipolazione iniziata a partire dagli anni ’70, finalizzata a rivestire l’Onu e soprattutto l’Assemblea Generale di poteri che non ha e non ha mai avuto.

L’Assemblea Generale è un mero strumento politico che, al giorno d’oggi, è in mano alle peggiori dittature del pianeta, munite di una agenda politica inequivocabile: demonizzare e mostrificare Israele e il popolo ebraico con il palese intento di distruggere, in modo accettabile per l’opinione pubblica, l’unico Stato ebraico del pianeta.     

Torna Su