Occhi ciechi e cuori di pietra: questo l’atteggiamento prevalente di un’opinione pubblica occidentale debole e confusa, mentre le piazze di ampie minoranze ideologizzate fanatiche giustificano o inneggiano alla disumanità abietta e feroce del 7 ottobre. I governi occidentali limitano, abbandonano o addirittura condannano l’autodifesa israeliana.
Elie Wiesel scrisse: “Ciò che fa più male non è la crudeltà dell’oppressore, ma il silenzio di chi ne è testimone”.
La cosa grave è che il mondo, mentre emergono sempre di più evidenze sconvolgenti sugli atti anti-umani di morte, tortura, annientamento psico-fisico, sevizie sadiche su bambini, donne e anziani israeliani, ha normalizzato Hamas con la leggenda nera di un’equiparazione fra due contendenti, in una sorta di un “neutro” conflitto Hamas-Israele. Questa banalità del male si unisce al male assoluto che abbiamo descritto: Hamas, Hezbollah, Iran lo sanno e lo calcolano per le loro aggressioni.
Colpisce il furore invasato, la carica distruttiva di odio e volontà mortifera delle piazze antisemite, antisioniste, antioccidentali. La somma di queste mentalità e ideologie, unite alla condotta dei governi occidentali in bilico fra ignavia e complicità, genera un terremoto antiebraico, antidemocratico e totalitario.
L’infame retorica che colloca Israele tra gli oppressori, e le organizzazioni del terrore islamico tra gli oppressi, va raddrizzata.
Perché il sionismo è una punta della causa di liberazione degli oppressi, dei perseguitati, delle vittime dei peggiori carnefici.
Gli ebrei sono più che un popolo oppresso: sono un popolo minacciato di sterminio, e il 7 ottobre ne è la prova iniziale. Gli ebrei sono i più esposti, ma anche i più resistenti.
Poi tutti gli oppressi del mondo. La nobile, eroica nazione ucraina che si difende dall’annientamento terrorista russo; i popoli di Hong Kong, del Tibet, gli Uiguri musulmani, Taiwan che resistono al regime comunista cinese; le donne e i giovani di Persia, coraggiosi ribelli che manifestano nelle strade contro la ferocia della repubblica islamica dell’Iran, che gridano al regime “Siete come l’Isis”; le splendide donne afgane nella resistenza all’ordine criminale talebano, e che maledicono l’Occidente per averle abbandonate; i popoli africani, martoriati dalle spietate bande jihadiste; i dissidenti russi, arrestati torturati esiliati avvelenati; i popoli curdo, armeno e birmano che lottano per la loro libertà; i giovani turchi, oppressi e repressi che resistono al regime di Erdogan; le sofferenze infinite delle donne arabe, schiave sotto il tallone del barbaro fanatismo islamico; le minoranze arabe liberali laiche, spirituali, riformatrici islamiche, minacciate di venir sgozzate come nel Corano si prescrive per le capre; i giovani omosessuali palestinesi che, nonostante siano diseducati all’odio antiebraico, fuggono in Israele dove trovano uno spazio di libertà; la memoria delle vittime dei genocidi contro i Tutsi, siriani, abitanti del Darfur.
Sul trauma del 7 ottobre, Yossi Klein Halevi – scrittore ebreo americano che vive a Gerusalemme – scrive:
“ Il 7 ottobre è stato un colpo fatale alla credibilità deterrente di Israele, perché è stata inflitta la peggiore sconfitta della nostra storia, dal nostro nemico meno formidabile. Eppure Israele non ha solo bisogno di ripristinare la propria credibilità militare nella regione. Deve anche ripristinare, all’interno della propria società, la credibilità dell’etica della solidarietà, minata dal fallimento dell’esercito nel salvare le vittime del massacro. (…) Nell’Occidente post-religioso, le persone hanno perso la capacità di parlare di bene e male, e il vecchio linguaggio religioso e filosofico è stato rimpiazzato dalla retorica vuota dell’accademia. L’accademia occidentale, negli ultimi decenni, ha cercato di sostituire la morale con la retorica post-coloniale e intersezionale, che è una morale fake. Israele in questa morale non può essere innocente. Per definizione, l’esistenza di Israele è un crimine e non ha il diritto di difendersi. Siamo in un momento in cui Hamas è visto da pezzi dell’Occidente e dai progressisti come preferibile rispetto a Israele. È una patologia che va ben oltre il dibattito politico, è un collasso dell’integrità morale dell’Occidente. In questa atmosfera, Israele non può fallire, perché se fallisse finirebbe come l’Occidente, che non sa più come fare con l’Islam radicale. Nell’ultimo secolo l’Occidente ha visto tre nemici esistenziali: nazismo, comunismo e ora l’Islam radicale. L’Occidente è stato in grado di sconfiggere i primi due, e non sono sicuro se sarà in grado di sconfiggere il terzo. Parti dell’Occidente hanno perso la fede nella propria civiltà, ma Israele non ha perso la fede nella propria causa.”
Nell’universo profondo di Dostoevskij si anticipa la visione di un nichilismo ateo contemporaneo, e la tragedia del compimento totalitario delle utopie ideologiche. I demoni e gli abissi infernali dei suoi personaggi e delle sue narrazioni dicono di gelidi razionalisti e patologie dell’odio. Il pensiero totalitario diventa totalitarismo senza pensiero, realtà di un paese-carcere, terrore e sangue. La luce accecante delle fredde idee astratte diventa oscurantismo compiuto. Gli idealisti dell’utopia diventano mostri infernali.
“La violenza trova il suo unico rifugio nella menzogna, la menzogna il suo unico sostegno nella violenza.” (Aleksander Solgenitsin, “Arcipelago Gulag”)
Un’indagine dell’Arab World Research and Development (Awrad) documenta il vastissimo appoggio dei palestinesi al terrorismo: il 75% approva il massacro del 7 ottobre, l’85,9% rifiuta la coesistenza con Israele, il 71,1% vuole restaurare la “Palestina storica” (mai esistita) e vuole tutta la terra ‘dal fiume al mare’. Viene in mente Winston Churchill che, mentre erano in atto massicci bombardamenti anglo-americani sulla Germania per ottenerne la capitolazione, diceva “Nessun tedesco è innocente”. Qualcuno lo era, con immenso coraggio, come il piccolo gruppo giovanile della Rosa Bianca e gli aristocratici attentatori alla vita di Hitler. Ma stavano in mezzo a un oceano di ‘volenterosi carnefici’.
Nella più nera violenza, proprio nelle fabbriche naziste della morte, riluceva l’attesa e speranza del sogno sionista.
In una pagina del suo memorabile libro “La Notte”, Elie Wiesel racconta:
“Diventarono presto miei amici (Yossi e Tibi, due fratelli cecoslovacchi). Essendo appartenuti un tempo a un’organizzazione giovanile sionista, conoscevano una gran quantità di canti ebraici: così ci capitò di canticchiare dolcemente arie che rievocavano le calme acque del Giordano e la maestosa santità di Gerusalemme. Spesso parlavano della Palestina: anche i loro genitori non avevano avuto il coraggio di liquidare tutto e di emigrare quando erano ancora in tempo. Decidemmo di emigrare quando erano ancora in tempo. Decidemmo che se ci fosse stato concesso di vivere fino alla Liberazione, non saremmo rimasti un giorno di più in Europa, avremmo preso la prima nave per Haifa.”
Ecco, questa è la vera Palestina libera. Quella invocata dai manifestanti fanatici antisemiti è, in chiarezza, una Palestina schiava.
Nel sionismo finalmente realizzato, con il ritorno degli Ebrei nella loro Terra, accade un formidabile scatto in avanti.
Saul Singer e Dan Senor, autori di “The Genius of Israel: The Surprising Resilience of a Divided Nation in a Turbulent World” e “ Start-Up Nation: The Story of Israel’s Economic Miracle”, ricordano che il grande rabbino capo del Regno Unito Jonathan Sacks chiese a Paul Johnson, cattolico che aveva scritto una storia degli ebrei, che cosa lo avesse colpito di più dell’Ebraismo nello scrivere il suo libro. La risposta fu che, mentre l’Occidente secolare di oggi ha enfatizzato l’individuo, l’Ebraismo “è riuscito a dare uguale peso ai diritti individuali e alla responsabilità collettiva”.
Gli autori scrivono: “ C’è una parola in ebraico per questa etica, che non esiste in inglese: ‘gibush’. L’orizzonte verso cui lavorano gli israeliani quando crescono non è entrare nella migliore università, ma prestare servizio nelle migliori unità dell’esercito. Mentre le pressioni iper-competitive sulle élite americane creano una dinamica di uno contro tutti, in Israele è l’opposto: alcune delle unità più prestigiose sono le più difficili e pericolose, ed essere accettati, essere un giocatore di squadra, è più importante delle abilità individuali. Il fatto che partecipare alla difesa del proprio paese sia una fase della vita per tutti – non qualcosa che gli altri fanno per noi – dà agli israeliani un senso di appartenenza, di essere un anello di una catena generazionale. I giovani israeliani sono consapevoli che i loro genitori e i loro nonni hanno servito per poter avere uno stato, e sanno che ora è il loro turno. È stata questa sorgente di solidarietà, unita alla cultura del servizio, che è sbocciata nel mese trascorso dal 7 ottobre. (…)
“Gli israeliani non sono soli, e questo probabilmente spiega una straordinaria anomalia: secondo l’ultimo World Happiness Report delle Nazioni Unite, Israele è il quarto paese più felice al mondo. Forse, il più grande segno di fiducia nel futuro è il fatto che gli israeliani hanno di gran lunga più figli di qualsiasi altra ricca democrazia. È una legge ferrea della democrazia che, a mano a mano che i paesi diventano economicamente più produttivi, diventano meno riproduttivi. Non ci sono eccezioni. Tutte le altre democrazie ricche sono ben al di sotto del tasso di sostituzione di fertilità pari a 2.1; la media OCSE di 1.6 figli per donna. Ma Israele è stato intorno a 3.0 negli ultimi 25 anni. Avere tre figli è la norma, nella Tel Aviv laica; averne quattro non è raro.”
Gli israeliani “si assumono la responsabilità del loro destino. Sentono di avere una responsabilità personale nel costruire – e ora ricostruire – il loro paese. Nella forza sociale nascosta di Israele risiedono non solo i semi della sua rinascita, ma un possibile progetto per la rinascita dell’Occidente.”
La fiducia e la proiezione al futuro si fondono sulla funzione sociale della Memoria. Il maestro Abraham Joshua Heschel scrisse:
“Per noi il ricordo è un atto sacro, santifichiamo il presente ricordando il passato. Per noi ebrei l’essenza della fede è la memoria. Credere è ricordare.”
Nella vita ebraica, una memoria selettiva esistenziale si unisce a una memoria del futuro.
Questo spiega la forza straordinaria del legame indissolubile tra gli ebrei dell’esilio e la Terra di Sion nei secoli, che i nazionalismi degli altri popoli non comprendono, non vogliono comprendere, anzi negano.
Ricordare e non dimenticare è l’imperativo biblico. Il verbo ‘zakhàr’ si trova nella Torah, in posizione chiave, ben 222 volte.
Scrive Rav Roberto Della Rocca:
“Questo rinnovamento nella tradizione è bene espresso dalla parola ebraica ‘kadima’, che significa ‘andare avanti’, che possiede lo stesso etimo di ‘kedèm’, ‘anteriorità’. In altre parole, significa vivere la propria storia secondo la metafora dell’arciere, la cui freccia arriva più lontano quanto più si è capaci di distendere l’arco all’indietro.”
“Nell’ebraismo il passato non è sorpassato e privo di utilità, ma costituisce un valido aiuto per affrontare la vita.”
Elie Wiesel scrive che “la storia ebraica si svolge al presente.”
Come accade oggi, nell’ora più buia, si riaccende la resurrezione del piccolo grande popolo ebraico.