Claudio Velardi, fondatore e direttore de Il Riformista è una delle poche voci del comparto mediatico italiano a essersi schierato a fianco di Israele. Lo ha fatto e lo fa, con passione, lucidità e determinazione. L’Informale ha voluto intervistarlo.
La prima domanda che ti faccio è inevitabile. Quali sono stati i fattori che hanno portato te e Il Riformista a decidere di sostenere Israele in modo così netto?
Il punto di partenza è che io sono un uomo di comunicazione e quindi filtro ciò che accade nel mondo attraverso la mia esperienza di comunicatore. La mia esperienza antica di comunicatore mi fa essere particolarmente sensibile nei confronti delle cause molto attaccate e che avverto essere attaccate in modo pregiudiziale, che avverto essere filtrate attraverso dei bias cognitivi forti, i quali, per altro, sono un mio interesse precipuo da molti anni e di cui Daniel Kahneman, morto l’anno scorso, è stato il massimo studioso. Ma alla base ho sempre considerato Israele come un simbolo e un riferimento del mondo occidentale e dei suoi valori e questo elemento ha dato molta forza e passione alla mia partecipazione a questa causa. Mettendo insieme questi fattori, a un certo punto mi sono detto che era arrivato il momento di avviare una battaglia quotidiana sul tema, e da qui è venuta fuori l’idea di una pagina del Riformista che abbiamo voluto chiamare “Le ragioni di Israele”. Da quel momento in poi è stata come una valanga. C’è una cosa che ho ritrovato in me, ed è stato il fatto di riappassionarmi ad una causa importante come non avveniva da decenni. Nel corso della mia lunga esperienza nel campo della comunicazione e della politica ho maturato uno strato di cinismo molto spesso e Israele me lo sta facendo venire meno.
Da quello che mi stai dicendo, dentro questa valanga mi sembra che ti stai trovando bene…
Mi trovo benissimo. Naturalmente mi sto rendendo conto di quanto sia difficile e di quanto questa causa sia tremendamente divisiva. Così come mi capitava in tempi lontani, oggi mi trovo in difficoltà quando sono con amici, nel parlare di Israele, perché a volte, anche con amici cari che però sono travolti dai pregiudizi e dalla campagna massiccia contro Israele, capisco come non sia possibile avviare un dialogo sincero perché il muro di incomunicabilità costruito da una comunicazione devastante è al momento troppo spesso. Ragione di più per rompermi la testa nel cercare di capire come fare per riuscire a creare una breccia in questo muro. Io vorrei cercare disperatamente di aprire qualche breccia, e per aprire delle breccie bisogna chiaramente farlo con il dialogo, passo dopo passo, non sbattenendo in faccia agli antagonisti le ragioni di Israele, perché in questo modo, ovviamente, non funziona, nella consapevolezza che questa è la causa più difficile da affrontare soprattutto in un momento così crudo.
La tua biografia politica è quella di un uomo impegnato a sinistra da sempre. PCI, PDS, DS. Nel 2000 eri capo dello staff di Massimo D’Alema che allora era presidente del Consiglio. D’Alema su Israele dice le stesse cose che diceva 25 anni fa. Quando le ascolti oggi che effetto ti fanno?
Adesso mi fanno impazzire. Stiamo parlando di tempi lontani e di altre storie, ma io non ho mai avuto un orientamento filopalestinese, anche perché la scena politica della sinistra di allora, su questo versante era completamente dominata dalla figura di Arafat considerato alla stregua di un eroe e io non ho mai avuto nei confronti della causa palestinese incarnata da Arafat particolari simpatie. Non mi piaceva lui a pelle, lo trovavo molto levantino, molto lontano dal mio orizzonte culturale che anche da comunista era nel solco dell’illuminismo napoletano. La mia impostazione è sempre stata anche dentro il partito questa, la mia figura di riferimento era Giorgio Napolitano che certamente in merito a Israele è stato uno dei più equilibrati. Appartenevo alla sua corrente, dalla quale non mi sono scostato nemmeno quando lavoravo con D’Alema con il ruolo di capo del team della comunicazione. All’epoca nonostante l’argomento fosse divisivo non c’era questa divaricazione così netta, questo inasprimento che ha condotto a un muro praticamente invalicabile. Oltretutto, se devo dirla tutta, all’epoca questo argomento in politica estera non era così centrale, le questioni al centro della scena erano altre, sto riferendomi agli anni 1998-2000, c’erano all’ordine del giorno altri temi, come per esempio la guerra in Kosovo, quindi questa questione se ne stava sullo sfondo. Con D’Alema uno scontro diretto sul tema non l’ho mai avuto. Oggi, anche in merito alle successive acquisizioni, allo sviluppo degli avvenimenti, a quella che anche una maturazione personale, le sue dichiarazioni mi appaiono totalmente fuori registro, ma questo già da quando, come ministro degli Esteri, durante la sua visita a Beirut nel 2006, si accompagnò a un rappresentante di Hezbollah. Con lui ho fatto una esperienza politica molto importante, poi le nostre strade si sono separate non solo sui temi della politica estera.
Israele è oggetto dal 1967, anno della guerra dei Sei giorni di una campagna di demonizzazione che è arrivata all’apice con la guerra a Gaza ancora in corso. Oggi viene accusato, senza alcun fondamento, di genocidio, ma non è una accusa nuova. La prima volta che accadde fu nel 1982 nel corso della prima guerra del Libano. Cosa hai da dire in merito?
“Genocidio” è una parola che non si può culturalmente, storicamente, strutturalmente, teoricamente applicare a quanto sta accadendo a Gaza. Si possono dire, se si vuole farlo, tutte le nefandezze di questo mondo in merito a quello che Israele sta facendo a Gaza, ma certamente non si può utilizzare il termine genocidio in quanto appartiene a un altro ordine categoriale. Questo lo affermo sotto un profilo strettamente tecnico. Non c’è da parte di Israele alcuna volontà di mettere fine a un popolo, a un’etnia, a una parte consistente di essa. Ci sono invece gruppi terroristici come Hamas o Stati come l’Iran che si propongono il genocidio come obiettivo. Ma il punto non è questo, il punto è un altro, ed è l’utilizzo di questa parola in modo strumentale contro Israele per ribaltare su di esso quello che è stato fatto con la Shoah. Si tratta di un modo per liberarsi da questo colossale senso di colpa.
A proposito della prima dobbiamo stare bene attenti, perché non c’è dubbio che si è trattato di un successo netto per Israele, e che, come ha dichiarato il Cancelliere tedesco Fredrick Merz, Israele ha fatto per noi il lavoro sporco, sul quale poi Trump ha messo il cappello e ha svolto la sua abituale comunicazione rutilante, ma seppure stiamo parlando di un grande successo, Khamenei è ancora al suo posto, non abbiamo notizie definitivamente certe sul destino dell’uranio che era stato arricchito e sulla effettiva consistenza dei danni alle centrali anche se sembrano assai ingenti. Detto questo, ci vorrebbe davvero una unità a livello internazionale per verificare sul campo cosa sta effettivamente facendo l’Iran in merito all’uranio, cosa che ovviamente non accade e dubito accadrà. Per quanto riguarda invece la guerra a Gaza, si tratta di una situazione estremamente intricata sulla quale non mi sento equipaggiato per dare indicazioni, ma quello che posso dire con certezza è che su questa guerra è stata veicolata una campagna di disinformazione immane sostenuta anche da agenzie internazionali come l’ONU e addentellati vari, che a dirla francamente hanno fatto il loro tempo. Aggiungo che Israele dovrebbe fare uno sforzo maggiore sul piano della comunicazione. Mi rendo conto che è un tema delicato che ha a che fare con regole e anche con procedure di guerra che vanno utilizzate per garantire la sicurezza di tutto, compresa quella dell’informazione, perché poi è facile e demagogico dire fate entrare i giornalisti. Chi li fa entrare? e dove?. Oltretutto mi sembra palese che da parte di Israele ci sia una ben motivata diffidenza se non sfiducia nel consentire l’ingresso di operatori dell’informazione che come il passato insegna hanno sempre fornito una copertura pregiudizialmente avversa allo Stato ebraico. Si tratta di un tema delicato e complesso, di non facile soluzione.
Quale è il tuo giudizio politico sull’operato di Benjamin Netanyahu?
Ero partito con un giudizio negativo, anche in questo caso frutto di disinformazione. Credo che stia facendo quello che va fatto da difensore massimo dello Stato di Israele e trovo del tutto strumentali le critiche che gli sono state rivolte relativamente al 7 ottobre, che a volte giungono alla paranoia cospirazionista. Ma passando a cose serie, non vedo cosa avrebbe potuto fare di diverso dopo il 7 ottobre e mi sembra che stia dimostrando doti indubbie da statista, e questo non lo affermo sulla base di un bias positivo ma in merito allo svolgimento progressivo degli eventi. Alla fine Netanyahu è stato usato emblematicamente come un capro espiatorio, il refrain abituale è, “Ah ma se in Israele non ci fosse Netanyahu”, ecc. come accadeva poi in passato con altri leader. Ma vorrei aggiungere una cosa a lato delle considerazioni su Netanyahu, la questione fondamentale non è certo questa ma è l’antisionismo, perché oggi pochi, pochissimi, si dichiarano antisemiti, l’antisionismo invece è stato sdoganato come ammissibile, ovvero si utilizza l’antisionismo come copertura accettabile dell’antisemitismo.
E’ anche più grave, si tratta di antisemitismo in purezza, la negazione al popolo ebraico e solo al popolo ebraico di potere avere un loro Stato. Questo antisemitismo è ben riassunto dallo slogan che incita alla liberazione della regione, che loro chiamano Palestina, dal fiume al mare.
E’ il passo successivo. Dopo il successo dell’appello ci siamo chiesti come proseguire, e anche riflettendo sull’efficacia comunicativa abbiamo poi optato per un appello sottoscritto da nomi dal prestigio internazionale, da Fiamma Nirenstein, a Bat Ye’or, da Jose Maria Aznar a Daniel Pipes, da Georges Bensoussan a Elliot Abrams, ad altri, il che ha costituito se vuoi un salto di qualità dovuto non più alla testimonianza, come è avvenuto con il primo appello ma di effettivo sostegno alle operazioni militari di Israele contro l’Iran. La manifestazione del 30 giugno non è altro che una estrinsecazione di questo secondo appello con una crescita di partecipazione per il suo carattere politico, perché avremo anche la partecipazione di politici, il che significa che stiamo aprendo una breccia che mi auguro vada ad allargarsi. Se vogliamo tornare all’inizio della nostra conversazione, ritengo che sia importante per fare uscire Israele da questo isolamento che gli è stato creato intorno, aprire quante più brecce possibili, dialogando anche con mondi con il quale si ha difficoltà di dialogo. Bisogna dialogare e fare in modo di portare più politici dalla nostra parte e non fare come questi esponenti di Sinistra per Israele, come Lia Qartapelle che va a pescare un articolo bufala di Haartez nel quale sulla base di testimonianze anonime si afferma che l’IDF sparerebbe intenzionalmente sulla folla a Gaza e poi ci fa sopra un post. Sono cose che fanno cascare le braccia. E’ come se anche loro non cercassero altro che trovare il passo falso di Israele per poi poterlo criticare o accusare. Non vedono l’ora di poterlo fare. Non sarebbe meglio che gettassero la maschera e facessero una associazione dal nome Sinistra per la Palestina?, sarebbero più coerenti.
