All’inizio di agosto un caso estremamente controverso di disinformazione ha portato sul banco degli imputati il New York Times in seguito a un’immagine di un bambino palestinese emaciato utilizzata per un articolo sulla questione della presunta carestia a Gaza.
Il bambino, inizialmente presentato come vittima di malnutrizione causata dal blocco degli aiuti da parte di Israele, è invece risultato affetto da una patologia genetica. Un errore che non ci si aspetta da un quotidiano di quel calibro e difatti il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato di volere intraprendere azioni legali nei confronti del quotidiano.
Secondo quanto emerso, la madre del bimbo, Mohammed Zakaria al-Mutawaq, aveva inizialmente affermato che il figlio era “nato sano” prima di soffrire di grave malnutrizione; ulteriori approfondimenti hanno però rivelato che Mohammed soffriva di paralisi cerebrale e complicazioni legate a una malattia genetica, dettagli assenti nell’articolo originale e nella didascalia. Netanyahu ha conseguentemente accusato il quotidiano newyorkese di avere distorto i fatti reali basandosi sulla narrativa di Hamas e gli altri media occidentali di avere fatto eco alla propaganda.
In realtà quello del New York Times non è altro che uno dei tanti casi di fatti non verificati ed immediatamente rilanciati dai media con conseguente e automatica accusa nei confronti di Israele, a prescindere da come siano realmente andate le cose.
Prendiamo ad esempio l’ultimo caso, quello dell’uccisione a Gaza di Anas Jamal al-Sharif, giornalista di al-Jazeera, avvenuta il 10 agosto 2025. I media hanno subito parlato di eliminazione mirata di giornalisti da parte dell’IDF. Poco dopo sono emersi ulteriori elementi che hanno rivelato ben altro su al-Sharif, in primis il fatto che fosse membro integrante di Hamas con tanto di ID militare (no.305342, data di arruolamento 03/12/2013) e affiliazione al battaglione “Jabaliya Est” e con ruolo di comandante presso una cellula addetta ai missili. Sono poi emerse diverse foto di al-Sharif assieme al leader defunto di Hamas, Yahya Sinwar e un post pubblicato il 7 ottobre 2023, giorno del massacro, dove il “giornalista” scriveva “Sono passate 9 ore e gli eroi stanno ancora girando per il Paese, uccidendo e catturando…Dio, Dio, come sei grande” con a seguito tre cuori verdi.
Anche in questo caso, i media si sono guardati bene dall’approfondire la figura del soggetto in questione che l’IDF aveva tra l’altro già segnalato come membro di Hamas nell’ottobre del 2024. La narrativa dominante è stata da subito quella di “Israele che uccide deliberatamente i giornalisti”.
Passiamo a un altro caso, quello del febbraio 2025 che ha coinvolto l’emittente britannica BBC, costretta a rimuovere il documentario, “Gaza: How To Survive A Warzone”, dalla propria piattaforma dopo una serie di pesanti critiche con conseguente inchiesta interna che ha portato all’individuazione di gravi difetti nella realizzazione del programma prodotto dalla britannica Hoyo Films: il bambino narratore è infatti risultato essere il figlio dell’ex viceministro dell’agricoltura di Hamas.
Come illustrato già nel marzo del 2024 da Or Yissachar, direttore della ricerca per l’Israel Defense and Security Forum, la disinformazione volta a prendere di mira la guerra al terrorismo portata avanti da Israele non è una novità. Basti pensare alle affermazioni secondo cui 30.000 palestinesi sarebbero stati uccisi da Israele a Gaza, di cui il 70% donne e bambini, ampiamente ripresa dalle Nazioni Unite, dall’UE e da alcuni media. Cifre che sono però state fornite dal fittizio “Ministero della Salute” di Hamas. Oppure la versione secondo cui Israele avrebbe ucciso 500 palestinesi presso l’ospedale Al Ahli Al Arab, che ha impiegato pochi minuti per raggiungere le prime pagine, portando persino all’annullamento della partecipazione del presidente Biden a un vertice in Giordania, mentre in realtà si era trattato di un razzo della Jihad Islamica Palestinese sparato a vuoto e atterrato in un parcheggio vicino, che aveva ferito diverse persone.
Robert Mann, esperto di “information warfare” e docente presso la Louisiana State University, fa una netta distinzione tra “disinformation”, “misinformation” e “malinformation”, indicando la prima come “informazione deliberatamente falsa e creata ad hoc per colpire il nemico”; la seconda come “informazione falsa ma non necessariamente diffusa per colpire qualcuno, ma piuttosto in quanto ritenuta vera da chi la condivide (utenti social in particolare), o semplicemente per noncuranza”; infine, la terza come “informazione veritiera ma decontestualizzata o utilizzata selettivamente per colpire qualcuno”.
Mann spiega che spesso i tre format vengono combinati assieme per portare avanti una campagna di guerra informativa. Gli obiettivi possono essere i più disparati, dal destabilizzare un Paese ed isolarlo a livello internazionale all’interferire con i processi elettorali interni.
In almeno due dei tre casi precedentemente citati, ovvero quello del New York Times riguardante il bambino gazawi emaciato e quello sull’eliminazione di Anas al-Sharif, possiamo trovare tutte e tre le categorie citate da Mann: nel primo caso una “malinformation” che utilizza dei fatti veri, ovvero la salute precaria del bambino, una “disinformation” in quanto la condizione del bambino viene indicata come conseguenza di un blocco dei viveri da parte di Israele, tralasciando invece la patologia genetica di cui soffre il bimbo e poi una “misinformation” che da eco alla notizia già condivisa dalla propaganda di parte tramite i primi due format.
Stessa cosa con Anas al Sharif, dove la “malinformation” si occupa di presentare la morte del soggetto in questione causata realmente da un raid israeliano, ma senza rendere nota la militanza attiva del soggetto in questione nell’organizzazione terroristica Hamas; la “disinformation” che si occupa poi di presentare il fatto come una caccia di Israele nei confronti dei giornalisti e la conseguente “misinformation” che viene successivamente diffusa da utenti che credono alla notizia, complice anche il sovraccarico informativo che rende difficile discernere il vero dal falso.
In troppi ancora oggi non si sono resi conto che i primi obiettivi della “information warfare” sono le menti delle masse attraverso lo sfruttamento dei pregiudizi cognitivi e delle vulnerabilità emotive. E’ dunque necessario contrastare rapidamente questo tipo di strategia, perché una volta che una notizia falsa è divenuta virale, non ci sono rettifiche che tengano.