Antisemitismo, Antisionismo e Debunking

Il selvaggio nichilismo della “Palestina libera”

Per la sua estrema attualità pubblichiamo l’articolo scritto da Hussein Aboubakr Mansour per e Tablet, e pubblicato il 10 ottobre 2023, tre giorni dopo l’eccidio perpetrato da Hamas in Israele.

“Liberare la Palestina” – lo slogan, la fantasia e la politica – ha sempre consapevolmente implicato l’omicidio di massa di ebrei nelle loro città, strade, negozi e case. Pochi sono disposti a dirlo apertamente, ma in molti circoli intellettuali, professionali e popolari in Medio Oriente e in Occidente, l’idea della liberazione nazionale palestinese è stata a lungo inquadrata in termini che giustificano o impongono l’uccisione indiscriminata degli ebrei. Per attori più inequivocabili come Hamas e la Repubblica Islamica dell’Iran, liberare la Palestina significa semplicemente lo sradicamento totale di Israele senza riserve. Non si tratta di una polemica, ma di una realtà fondamentale e di un dato di fatto che richiede un esame approfondito.

Considerate il contesto ideologico in cui sono cresciuti molti arabi e musulmani, me compreso. Crescendo come musulmano in Egitto, il concetto di Palestina non è mai stato una questione geopolitica; era una parte profondamente radicata della nostra identità morale collettiva, l’elemento unificante del nostro nazionalismo arabo, sia religioso che laico. Era, e rimane, una causa che ci ha toccati politicamente, socialmente e spiritualmente, spesso con un fervore che sfida la razionalità. Questa carica emotiva, radicata nelle narrazioni politiche e religiose di gran parte del mondo arabo musulmano, ha screditato l’idea che la causa palestinese si basi semplicemente sull’antisionismo piuttosto che sull’antisemitismo.

Questo contesto, tuttavia, non è in alcun modo essenziale per ciò che significa essere arabi o musulmani: è un fenomeno profondamente moderno, plasmato in gran parte dall’influenza delle ideologie rivoluzionarie europee sugli intellettuali e gli attivisti politici arabi. Tra questi sistemi di pensiero importati c’è una corrente di antisemitismo rivoluzionario che considera gli ebrei il nemico eterno non solo degli arabi, ma di tutti gli esseri umani. Non tutti gli arabi o i musulmani condividono queste opinioni, ovviamente, ma quando sono fuse con pregiudizi religiosi e culturali preesistenti, contagiato quasi ogni istituzione, modello di pensiero e aspetto della vita nel mondo arabo musulmano. La letteratura politica e religiosa araba moderna è intrisa della convinzione che gli ebrei siano hostis humani generis, i nemici dell’umanità: una classica diffamazione europea e un grido rivoluzionario francese.

I problemi di questa vena velenosa di pensiero sono aggravati dal concetto che “liberare la Palestina” è una specie di resistenza contro i coloni stranieri, una rivoluzione fanoniana in cui la violenza contro i civili è difesa come mezzo legittimo per ottenere giustizia razziale. L’etichettatura indiscriminata degli ebrei israeliani – la stragrande maggioranza dei quali sono rifugiati o discendenti di rifugiati dalle dittature arabe musulmane e dal totalitarismo sovietico – come colonizzatori, coloni e imperialisti è in realtà un tipo di punizione etnica collettiva, insensata persino nei suoi stessi termini contorti, che ricorda la condanna cristiana medievale degli ebrei come abomini morali, come gruppo e come individui. Potreste avere notato negli ultimi giorni che coloro che si impegnano per liberare la Palestina non riescono a evitare l’abietta disumanizzazione degli ebrei come popolo – e che il loro obiettivo non è che i palestinesi vivano semplicemente in pace, dignità e libertà accanto agli israeliani, ma di impiantare uno Stato che sia necessariamente stabilito sulle rovine di Israele. Hamas è esplicito nel suo intento di sterminare la popolazione ebraica di Israele e di ridurre in schiavitù i sopravvissuti; i suoi sostenitori in Medio Oriente e in Occidente sono più reticenti su questo punto.

Gli islamisti articolano la fantasia dello sradicamento ebraico nel linguaggio del jihad, inquadrato in termini escatologici e permeato da un senso di giustizia divina e di guerra cosmica – ciò che gli occidentali normalmente riconoscerebbero come una forma di fascismo religioso. Ma mentre la versione islamista di questa idea è efficace ai fini della mobilitazione delle masse povere e ignoranti, la versione “di sinistra” o laica – espressa nel linguaggio di Fanon e Karl Marx, dell’emancipazione umana, dell’uguaglianza, dell’anticapitalismo e della giustizia sociale – è il mezzo più efficace per mobilitare l’opinione pubblica dell’intellighenzia occidentale. Il punto è che si tratta di due facce della stessa medaglia, il cui valore è radicato nel sangue ebraico.

Per coloro che sono plasmati da una simile visione del mondo – che essa sia la versione “di destra” o “di sinistra”, religiosa o atea – celebrare l’omicidio di civili israeliani innocenti, inclusi bambini, donne e anziani, è l’espressione del parziale compimento di una visione morale. Da adolescente in Egitto, ricordo che quasi tutti gli adulti intorno a me esprimevano tali sentimenti quando seguivano le notizie degli attentati suicidi contro i civili israeliani durante la Seconda Intifada. Le più importanti autorità religiose egiziane dichiararono i colpevoli martiri e santi. In un certo senso, non era dissimile dalla valorizzazione e persino dalla canonizzazione di coloro che hanno distrutto mezzi di sussistenza, bruciato proprietà e preso di mira gli agenti di polizia durante le proteste in America nell’estate del 2020. Non intendo iniettare la politica interna americana dove non dovrebbe, né suggerire una perfetta equivalenza morale, ma c’è una ragione per cui gli stessi leader di Hamas e della Repubblica Islamica dell’Iran insistono nel dire di essere impegnati nella stessa lotta contro il razzismo.

Quasi ogni arabo musulmano sa che ciò che descrivo non è un’opinione personale, ma una realtà oggettiva. Potremmo cercare di sminuire questi fatti o liquidarli come sogni ad occhi aperti di ignoranti sotto l’influenza di fanatici religiosi e populisti. Ma non dovremmo negare che siano veri.

Il mio timore è che l’impulso a liquidare e sminuire sia il sottoprodotto non di una sincera convinzione, ma di un profondo senso di impotenza. Dopo molte recenti conversazioni con la nuova generazione di giovani professionisti e diplomatici arabi intelligenti, occidentalizzati e altamente istruiti, ho assistito a un forte desiderio di non affrontare questa realtà. Persino tra coloro che accettano sinceramente la legittimità di Israele in un modo che i loro genitori non sarebbero mai stati capaci di fare, li sento quasi sempre descrivere la morte di israeliani innocenti come in qualche modo colpa loro, o almeno colpa del governo israeliano per non avere stipulato la pace unilateralmente e posto fine al conflitto. Non c’è niente di più deprimente della resa dei giovani a un problema che considerano troppo grande da risolvere.

Quelli di noi che appartengono alla classe professionale cosmopolita degli arabi, che saltano da un paese all’altro e da uno stile di vita all’altro, beneficiando di culture straniere che vivono della moneta di scambio morale del liberalismo e della tolleranza, in molti casi provano segretamente vergogna. Vediamo l’antisemitismo, la sete di sangue, la follia, e rabbrividiamo, ma speriamo che passi. È più facile per noi guardare avanti a un futuro ipotetico in cui le cose stanno diversamente. È più facile ingraziarci il nuovo mondo sociale a cui vogliamo appartenere, piuttosto che affrontare i fallimenti di quello che ci siamo lasciati alle spalle. Li liquidiamo, li sminuiamo, li giustifichiamo, diciamo: “E Shireen Abu Akleh?” e continuiamo a fingere.

Ma nemmeno noi siamo così freschi o giovani come ci piace pensare. Stiamo seguendo le orme delle precedenti generazioni di arabi modernisti, laici e intellettuali. Anche loro non volevano avere nulla a che fare con le loro terre natali, che consideravano prive di quel potere, prestigio o rispetto che bramavano. Nel loro egoismo e narcisismo intellettuale, non volevano appartenere a società “arretrate”. Così cercarono nelle ideologie straniere, per lo più occidentali, un rifugio e un nascondiglio dall’arretratezza. Si unirono ai movimenti laici progressisti e alle rivoluzioni di tendenza perché offrivano una via di fuga dalla fatica di un cambiamento lento, marginale e locale. Diventarono rivoluzionari perché avevano paura e erano insicuri. Come Edward Said, erano “umanisti” antisionisti e antiamericani perché non volevano essere, o non potevano essere, “arabi”. Il loro evidente sciovinismo culturale era semplicemente un bisogno di autoannientamento, di scomparire nell’universalismo. Le loro vite erano una ricerca senza speranza di riuscire a liberarsi della propria pelle.

Agli arabi della mia generazione dico che abbiamo bisogno di un approccio davvero diverso. Non vi chiedo di amare Israele o il sionismo, o di appendere un poster di Herzl fricchettone in camera da letto. Se siete critici nei confronti di Israele e pensate che dovrebbe esistere una Palestina, continuate a farlo. Tutto ciò che vi chiedo è di essere autenticamente coraggiosi, di ammettere che l’omicidio a cui tutti abbiamo assistito negli ultimi giorni è una rappresentazione accurata e una conseguenza logica di un sistema morale catastrofico, quello che tutti conosciamo intimamente. Questo è un momento di introspezione collettiva. È tempo di affrontare gli angoli più oscuri del nostro retaggio ideologico e di mettere in discussione le idee e le convinzioni che potremmo aver assorbito acriticamente. Solo così facendo possiamo sperare di contribuire a un mondo più costruttivo e umano per noi stessi.

Traduzione di Niram Ferretti

https://www.tabletmag.com/sections/israel-middle-east/articles/savage-nihilism-free-palestine

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