Interviste

Perché Israele è odiato: intervista a Ugo Volli

In attesa del prossimo libro di Ugo Volli, La Shoà e le sue radici, (Marcianum Press) abbiamo voluto intervistarlo a proposito della attuale guerra in corso, della quale, quotidianamente, rende conto con i suoi nitidi e preziosi bollettini su Shalom.

Il 7 ottobre scorso, l’eccidio perpetrato da Hamas di sorpresa in Israele, di un solo colpo  ha manifestato  una inattesa vulnerabilità dello Stato  e ha mostrato al mondo come, dopo la Shoà, si venga ancora uccisi in massa in quanto ebrei e con una ferocia inimmaginabile. A un po’ più di un mese di distanza quali sono le tue considerazioni su quello che è accaduto?  

La strage del 7 ottobre è colpa dei terroristi e non certo di Israele. Ma non è stata adeguatamente contrastata. Vi sono stati numerosi errori tattici: c’era troppa fiducia nei sistemi di allarme elettronico, i sistemi di comunicazione e di guardia erano vulnerabili, non vi era difesa autonoma delle comunità di frontiera, mancava una riserva militare di pronto intervento, si è consentita una festa con migliaia di ragazzi vicina al confine. Insomma il paese era vulnerabile. Ma ciò deriva da un atteggiamento di “whishful thinking” diffuso negli apparati politici, militari e informativi. Si è creduto davvero che Hamas fosse interessato alla pace e alla prosperità di Gaza, perché Israele vuole la prosperità e la pace. Un giusto calcolo strategico fatto vent’anni fa (è meglio un nemico diviso in fazioni contrapposti che unito e compatto) si è trasformato, soprattutto ad opera di certi settori politici e militari, nell’idea che l’esistenza del regime di Hamas potesse essere compatibile con la pace e dunque migliore per Israele della sua eliminazione.  

Prima dell’7 di ottobre Israele è stato attraversato da una profonda lacerazione interna. Per quasi un anno ci sono state imponenti manifestazioni di piazza contro la riforma della giustizia. Si è accusato Netanyahu di volere condurre il paese verso il baratro, si è incoraggiata la diserzione. Quanto può avere influito secondo te questo stato di cose sulla decisione di Hamas di colpire Israele? 

Ci sono state più che manifestazioni di piazza. C’è stato un tentativo, per dirla con Shmuel Trigano, di colpo di stato postmoderno, che aveva l’obiettivo di sottrarre la sovranità all’elettorato e al parlamento per riportarlo in mano alle élites economiche politiche e burocratiche di sinistra che l’hanno in sostanza detenuto dalla fondazione di Israele e che ora sentivano il rischio di doverlo cedere a un elettorato orientato a destra. C’è chi fra loro ha minacciato la “guerra civile”, chi ha lavorato con successo per indurre i settori più tecnologici (e dunque più elitari) dell’esercito alla diserzione (almeno dei riservisti) e al rifiuto della leva. Fra costoro vi erano anche gli ideologi del “campo della pace”, che vi vedevano la possibilità di una rivincita per le loro politiche fallimentari di appeasement con i terroristi. La colpa della strage, lo ripeto, è tutta dei terroristi. Ma i settori che hanno promosso, massicciamente finanziato, sostenuto e organizzato il tentativo di colpo di stato contro il governo Netanyahu hanno gravi responsabilità. Vale la pena di ribadirlo, perché molto probabilmente la pacificazione interna di Israele in seguito all’eccidio è provvisoria e il rischio di nuove scissioni ed eversioni si rinnoverà appena conclusa la fase bellica. 

C’è, in corso da cinquanta anni un dispositivo ricorrente tutte le volte che Israele si difende da una aggressione, gli viene chiesto di rispondere “proporzionalmente”, di non esagerare, per poi subito evidenziare che le sue azioni belliche sono criminali, abnormi, ecc. Lo vediamo in questi giorni. Quali sono, a tuo avviso, i fattori principali che attivano questo dispositivo? 

Proporzionalità” in guerra è un’espressione insensata, perché l’obiettivo di ogni guerra è l’esercizio di una forza superiore al nemico, tale da costringerlo a rinunciare ai suoi progetti politici e ad adeguarsi a quelli del vincitore. Fin che le forze sono proporzionali, come sanno gli strateghi, la guerra continua. Di più, questa guerra è stata provocata da una serie di eventi criminali senza precedenti: non solo assassinii, ma stupri, mutilazioni, persone bruciate vive, torture di bambini e di anziani, veri e propri squartamenti. Dovrebbe Israele essere proporzionale ripetendo questi crimini sulla popolazione di Gaza? Naturalmente no. La richiesta che si fa a Israele è in realtà quella di non vincere: o di perdere (e allora ci sarà la soddisfazione del compianto rituale della memoria, che già si esercita il 27 gennaio) o al massimo di pareggiare, che significa continuare a subire stragi e distruzioni. Ciò deriva dalla vigliaccheria morale dell’Occidente, che ormai ha paura di affermare la propria identità e le proprie ragioni – e per questo quasi sempre le élites culturali e mediatiche occidentali in caso di conflitto si schierano col nemico, per barbaro che sia. Israele è odiato perché è l’avanguardia dell’Occidente da molti punti di vista, ma non si arrende. E poi vi è il marchio specifico dell’antisemitismo, figlio dell’antigiudaismo cristiano. Per esso i soli ebrei accettabili sono quelli sconfitti, dolenti, sofferenti, perché essi sono affetti dal marchio indelebile costituito dalla loro esistenza “abusiva”. Essi dovrebbero essere scomparsi da tempo, essersi fusi nella maggioranza cristiana, musulmana, comunista, postmoderna. Non lo hanno fatto e che allora paghino con la più crudele abiezione. Magari anche con le stragi più efferate compiute da terroristi che sono apprezzati nonostante le loro azioni, perché nemici degli ebrei. 

La cosa sorprendente ma non per chi conosce a fondo la storia di Israele e i fatti, è l’esorbitante livello di mistificazione della realtà. Si è giunti progressivamente dopo la Guerra dei sei giorni, nel corso di due generazioni, a trasformare gli aggressori, gli arabi, in vittime, e gli aggrediti, gli israeliani in oppressori. Vorresti evidenziare cosa ha determinato questa narrativa  egemone? 

Gli arabi sono nemici di Israele. Israele è il male. Lo è perché è rinato nonostante l’interdetto teologico cristiano, perché è uno stato liberale e capitalistico di successo, perché non si è piagato ai diktat sovietici prima, del politically correct poi. Israele è il male soprattutto perché è lo stato degli ebrei liberi e vivi, e gli ebrei vanno bene solo prigionieri e morti.  Vivo e prospero è l’ebreo degli stati, che va rimesso al suo posto. Gli arabi sono nemici degli ebrei e dunque buoni, anche perché hanno il petrolio. Magari sono governati da super-ricchi reazionari e sono loro stessi portatori di un modo di vita incompatibile con la modernità e il progresso. Ma i palestinesi sono speciali. Perché solo sì arabi, ma non hanno altre caratteristiche storico-sociali se non l’opposizione a Israele. Non c’erano prima degli anni Sessanta, sono stati inventati (come popolo, naturalmente non come individui) dai servizi segreti sovietici che avevano bisogno di un’etichetta per mettere in difficoltà l’Occidente in Medio Oriente. Non hanno un passato, non hanno una cultura, non hanno neppure un lingua; ma sono i nemici di Israele che gli contendono la terra e la legittimità. L’URSS non c’è più, ma l’influsso velenoso dell’ideologia sovietica ancora domina la politica, le università e i media occidentali. 

Gli ebrei sono sempre la pietra di inciampo. Oggi, come duemila anni fa. Per secoli sono stati il capro espiatorio, il popolo su cui, più di ogni altro, si sono proiettati fantasmi, demoni, paranoie. Inevitabilmente questo ruolo spetta oggi a Israele. Cosa hai da dire in proposito? 

Visto da dentro, il popolo ebraico non ha nulla di tutto ciò. E’ il popolo che ha portato al mondo la morale dei diritti e dei doveri uguali per tutti (sintetizzati dai dieci comandamenti), che sempre “sceglie la vita”, che è fedele a se stesso e ai suoi valori tanto da essere sopravvissuto ai suoi potentissimi oppressori politici: gli egizi, i babilonesi, i romani, la Chiesa, l’Islam, il socialismo reale, oggi il relativismo postmoderno. Forse per questa incredibile capacità di resistenza identitaria è odiato. Ma proprio grazie ad essa gli ebrei non odiano il mondo circostante, cercano buoni rapporti, voglio contribuire e collaborare, spesso si innamorano dei loro ospiti, che siano la Spagna, la Germania, il mondo arabo, Venezia: tutte piccole patrie rimpiante e desiderate. Verrà il giorno, speriamo, che questo amore non sarà ricambiato con l’odio. 

L’obbiettivo di Israele è di sradicare Hamas dalla Striscia. Gli Stati Uniti vorrebbero che una volta che Israele sarà in grado di farlo, il governo di Gaza passi sotto la tutela dell’Autorità Palestinese. Netanyahu ha detto chiaramente che questo non succederà. Quale dovrebbe essere per te il futuro della Striscia? 

Domanda molto difficile. L’Autorità Palestinerse non è in grado di controllare neanche le città che oggi nominalmente ne dipendono, come Jenin. Se Muhamed Abbas è ancora presidente lo deve a Israele che ha scongiurato i tentativi di eliminarlo. Non può certo governare Gaza al posto dei terroristi, anche perché i suoi uomini hanno partecipato a tutta la recente ondata terrorista, incluso il 7 ottobre. Non credo a un governo dell’Onu o di altre agenzie internazionali, che sarebbe solo lo schermo dei terroristi. L’ideale sarebbe che l’Egitto si riprendesse la Striscia, che era sua fino al ‘67. Ma non lo farà, perché sarebbe solo una fonte di guai. Uno degli aspetti più tristi della situazione del campo palestinese è che non esistono neppure in esilio delle personalità non compromesse col terrorismo. Ce n’erano in Italia e in Germania durante il nazifascismo, c’erano nei paesi dell’Est europeo (non in URSS), Ci sono in Cina, ma non fra i palestinesi. Non conosco la soluzione. Ci potrebbero essere amministrazioni locali su base tribale, come propone Mordechai Kedar (ma a Gaza la popolazione è molto mescolata). E’ chiaro comunque che Israele dovrà essere presente e intervenire sul piano della sicurezza, perché anche sconfitte le organizzazioni terroriste, resteranno i loro vecchi membri e almeno parte dell’appoggio della popolazione.

Due popoli, due Stati. Questo assunto fu alla base della Commissione Peel nel 1937, quando tradendo lo spirito del Mandato britannico per la Palestina del 1922 che assegnava all’abitabilità ebraica tutti i territori a occidente del Giordano, gli inglesi proposero agli arabi l’80% del territorio. Dissero di no allora. Dissero di no al piano di partizione dell’ONU del 1947, e da allora non hanno mai smesso. Eppure si continua a insistere. Perché?

I due stati per due popoli ci sono già. Uno è Israele, l’altro è la Giordania che fu ritagliata dagli inglesi nel 1922 dal mandato britannico di Palestina come emirato di Transgiordania comprendendo l’80% circa del territorio, proprio per fornire uno stato agli arabi del Mandato. Oggi tre quarti della popolazione della Giordania ha origini o legami al di là del Girdano, compresa la regina. Chi vuole oggi dividere Israele in due stati, lo sappia o no, sta solo cercando di applicare la strategia del salame immaginata da Arafat: mangiare Israele una fetta per volta.

La domanda più difficile, forse. Come vedi il futuro di Israele dopo questa guerra? 

Lo vedo come oggi: uno stato dinamico, conflittuale, difficile, orgoglioso, radicato nel territorio e nella cultura, inventivo, multiforme, sentimentale ma lucido, religioso ma scientifico, vecchio-nuovo, come diceva Hertzl, pieno di memorie pesanti. Cui si è aggiunto il 7 ottobre.     

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