L’uomo di origini islamiche che a Boulder in Colorado ha preso come bersaglio con un lanciafiamme artigianale la folla radunata per il «Boulder Run for Their Lives», appuntamento settimanale della comunità ebraica promosso dalla Anti-Defamation League, feerndo otto persone, una in condizione gravi, segue l’omicida che a Washington, il 22 di maggio ha ucciso al Museo ebraico della capitale americana una giovane coppia di funzionari israeliani dell’ambasciata. Si è trattato, come in quel caso, di colpire per uccidere uomini e donne ebrei, scegliendoli come bersaglio in quanto ebrei. Entrambi gli attentatori hanno urlato lo slogan ormai canonico, “Free Palestine”, che abbiamo sentito scandito per mesi da studenti americani durante le manifestazioni occorse in alcune delle più blasonate università del Paese e in molte manifestazioni in giro per il mondo. Naturalmente, qui in Italia non ci facciamo mancare niente, e il grido è diventato ormai il lasciapassare di tutti coloro che credono che invocando la scomparsa di Israele, si situano dalla parte della giustizia e dei diritti umani. Anche il primo maggio, sul palco del consueto concerto in piazza, un gruppetto musicale lo ha scandito durante la sua esibizione a beneficio della folla festante.
Durante il suo periodo di detenzione a Gaza, Shlomi Ziv, uno degli ostaggi rilasciati, ha raccontato che i suoi carcerieri gli hanno mostrato un filmato delle proteste anti-israeliane avvenute alla Columbia University di New York, dicendogli, “Vedi? Abbiamo la nostra gente ovunque”.
L’esercito di Hamas non si trova infatti solo a Gaza ma è una realtà transazionale che gode di un’ampia rete di supporto, non solo presso istituzioni come l’ONU, dove è incardinata l’UNRWA, ma anche a livello mediatico, accademico, presso numerose ONG. Gli urlatori omicidi di Free Palestine, si discostano da quelli non omicidi solo perché dalle parole passano all’azione. La distanza è solo questa. Hamas ringrazia i secondi, ma soprattutto i primi.
