Interviste

Alla luce del diritto internazionale: Intervista a David Elber

Collaboratore abituale de l’Informale, David Elber è, senza tema di sementita, uno dei più attenti studiosi del diritto internazionale e delle sue applicazioni storico-politiche. Profondo conoscitore del contesto mediorientale e del conflitto arabo-israeliano ha pubblicato per la Salomone Belforte Editore, Due pesi e due misure, Il Diritto Internazionale e Israele (2019), Il Mandato per la Palestina, Le radici legali dello Stato di Israele (2021).

Nel 2020 si è riacceso il conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il possesso della regione dell’Alto Karabakh, territorio abitato prevalentemente da armeni ma rivendicato da Baku. Potrebbe ricostruire la vicenda sotto il profilo del diritto internazionale?

Prima di entrare nel merito di questa complessa vicenda, è opportuno chiarire alcuni aspetti del diritto internazionale, visto che è la chiave utilizzata per ricostruire le vicende del Nagorno-Karabakh. Per prima cosa bisogna comprendere che giustizia e diritto non sempre coincidono. Questo vale soprattutto per il diritto internazionale. Infatti, quando si determinano i confini internazionali dei nuovi Stati, il diritto internazionale adotta un principio universalmente accettato – l’uti possidetis iuris – con il quale si stabiliscono i confini dei nuovi Stati partendo da quelli delle unità amministrative che li hanno preceduti. Possiamo fare degli esempi per far comprendere il meccanismo. Gli Stati che sono emersi dall’implosione di Stati multietnici come la Jugoslavia o l’URSS, hanno ereditato i confini delle repubbliche che le componevano. Questo a prescindere dalla volontà delle persone che vi abitano. Mai nessun referendum popolare è stato fatto per ascoltare la volontà delle popolazioni. Così è successo anche nel caso degli Stati che sono nati dal processo di decolonizzazione dove i confini erano stati imposti dalle Potenze coloniali. Questo principio è stato utilizzato a partire dal 1800 ed è diventato basilare nel diritto internazionale. Possiamo dire che sia “giusto”? No non lo è, ma è il principio considerato, dalla comunità internazionale, come il male minore per evitare conflitti tra Stati confinanti, anche, se in molte circostanze non li ha affatto evitati. Come è il caso della disputa tra armeni e azzeri per la regione del Nagorno-Karabakh/Artsakh. In questo caso il diritto internazionale è chiaro: la “fotografia” scattata alla data di indipendenza – il 30 agosto 1991 – dell’Azerbaigian, mostra in modo inequivocabile che l’Oblast del Nagorno-Karabakh ne era parte, e la proclamazione di indipendenza della Repubblica di Artsakh, avvenuta nel mese di settembre, è stata ritenuta illegittima dalle autorità azere e successivamente dalla comunità internazionale, così come il referendum popolare del 10 dicembre che ne confermava l’indipendenza. Bisogna anche sottolineare che gli armeni del Nagorno, già nel 1988 avevano richiesto formalmente l’annessione del loro Oblast alla Repubblica Socialista Sovietica di Armenia ma la questione rimase in sospeso con la crisi dell’Urss iniziata nel 1989. Per concludere, in questo caso, come in altri simili, il principio dell’uti possidetis iuris prevale sul diritto all’autodeterminazione della popolazione armena del Nagorno-Karabakh. Il principio dell’uti possidetis iuris può essere messo in discussione solo con un accordo pacifico tra le parti. Come è stato per il caso della separazione tra Cechi e slovacchi nel 1993.

L’Armenia, nel corso dell’ultimo conflitto, ha ritirato il suo ambasciatore a Tel Aviv e ha ufficialmente chiesto a Israele di smettere di vendere armi a Baku. Qual è lo stato delle relazioni internazionali tra l’Azerbaijan e Israele?

Sì, è vero l’Armenia ha deciso di ritirare il suo ambasciatore durante il conflitto con l’Azerbaigian nell’ottobre del 2020. Ma va anche rilevato che l’Armenia lo aveva inviato solo poche settimane prima. Fino all’estate del 2020 l’Armenia non aveva mai riconosciuto lo Stato di Israele per le forti pressioni esercitate dall’Iran che è alleato dell’Armenia. Il legame che unisce Israele all’Azerbaigian è di tipo pragmatico, ovvero, è un rapporto nel quale convergono reciproci interessi ma non ci sono affinità culturali o politiche. Mi spiego meglio: l’Azerbaigian fin dal 1994 è stato uno dei pochissimi paesi (l’unico musulmano) al mondo ad esportare petrolio verso Israele nonostante le forti pressioni contrarie da parte dell’Iran e dei paesi arabi. Si è trattato di un fattore decisivo per la crescita economica di Israele, perché potendo diversificare i fornitori di petrolio, poté ottenere dei prezzi molto più bassi di quelli che pagava fino a quel momento. L’unica cosa che interessava all’Azerbaigian di quanto produceva Israele erano le sue armi. Così Israele iniziò una cospicua fornitura di armi anche tecnologicamente avanzate. Esse furono decisive per l’Azerbaigian nel conflitto scoppiato nel 2020. Bisogna aggiungere che l’invio di armi fu fatto anche in funzione anti-iraniana più che in funzione anti-armena. Infatti, nonostante l’Azerbaigian e l’Iran siano entrambi paesi a maggioranza sciita, c’è stata sempre molta tensione tra i due paesi a causa della presenza di una numerosa minoranza azera in Iran che gode di diritti limitati e a causa delle velleità espansioniste iraniane verso l’Azerbaigian che sono di antica data.

L’Armenia cristiana, paradossalmente, ha come alleato l’Iran degli Ayatollah. Come è spiegabile questo rapporto? Quali sono i caratteri dell’antisemitismo armeno e di quello azero?

L’alleanza tra l’Armenia e l’Iran è del tutto improntata ad una logica geopolitica e non ha un carattere di affinità culturale. Mi spiego: nel gioco delle alleanze regionali, l’Armenia si è trovata contrapposta all’Azerbaigian per questioni territoriali, e l’Azerbaigian è un alleato della Turchia, storico nemico degli armeni. Inoltre, il contrasto esistente tra Azerbaigian e Iran ha portato l’Armenia che è quasi accerchiata da Turchia e Azerbaigian ad allearsi con l’Iran, oltre che a mantenere la storica alleanza che la unisce alla Russia.

Per quanto concerne l’antisemitismo nei due paesi, c’è da osservare che le comunità ebraiche presenti nei due paesi caucasici sono molto diverse numericamente. In Armenia, ad esempio, si stima la presenza ebraica in meno di 1.000 persone in tutto. La grande maggioranza è emigrata in Israele e negli Stati Uniti dopo il collasso dell’Unione Sovietica (circa 12.000 persone). Dai pochi resoconti che filtrano a tale riguardo, non ci sono indicazioni di discriminazioni o atti antisemiti in Armenia. Ben diverso è l’atteggiamento della Chiesa armena soprattutto quella di Gerusalemme, ben poco “amichevole” nei confronti dello Stato di Israele.

In Azerbaigian, la comunità ebraica, pur riducendosi parecchio con la scomparsa dell’Unione Sovietica (nel 1989 erano circa 45.000 più che in Italia), conta ancora circa 10.000 membri ed è una delle più grandi in un paese musulmano. Anche qui non si registrano particolari discriminazioni o pericoli. L’alleanza – anche se formalmente l’Azerbaigian ha riconosciuto lo Stato di Israele solo quest’anno – tra i due paesi ha probabilmente migliorato la condizione della popolazione ebraica nel territorio azero.

Tornando, più strettamente, ai temi del diritto internazionale. Non di rado si leggono parallelismi tra lo status del Nagorno Karabakh e quello della Giudea e Samaria. Potrebbe evidenziare le differenze e le somiglianze?

Purtroppo è vero. Molte volte si vogliono fare paragoni tra situazioni non paragonabili e questo ne è un chiaro esempio. Inizio col dire che di somiglianze non ce ne sono. Questo perché per il diritto internazionale, come spiegato in precedenza, il Nagorno Karabakh apparteneva legalmente all’Azerbaigian ma fu occupato dall’Armenia. Il caso di Giudea e Samaria è l’opposto: questi territori appartenevano ad Israele, per il medesimo principio universale dell’uti possidetis iuris, ma furono occupati illegalmente dalla Giordania. Però nel caso di Giudea e Samaria la politica si è sostituita al diritto e si è voluto far credere che la Risoluzione 181 con la quale l’Assemblea Generale suggeriva alla Gran Bretagna, in qualità di mandatario, di operare la spartizione del territorio mandatario in favore delle due comunità (ebraica e araba), avesse un potere legale che non ha mai posseduto. In pratica per volontà araba la Risoluzione 181 rimase lettera morta e Israele è nato, non per il suo tramite, ma perché quel territorio era stato già assegnato al popolo ebraico fin dal 1922. Ora che venga considerato come territorio occupato non ha nessuna giustificazione legale. Per fare un esempio, è come se un giorno l’Ucraina riuscisse a liberare la Crimea e la comunità internazionale lo considerasse un territorio occupato dagli ucraini.

Quali differenze e diversità, invece, con la situazione delle Alture del Golan?

Nel caso del Golan si può parlare di occupazione legale, da parte di Israele, di questo territorio in base ai principi del diritto internazionale che prevedono che in caso di guerra difensiva si possa occupare il territorio dell’aggressore. Infatti, nel 1948 con la nascita dello Stato di Israele, le alture del Golan furono utilizzate dalla Siria per invadere il nascente Stato ebraico. La guerra fu un palese atto di aggressione e, di conseguenza, un atto illegale per il diritto internazionale in aperta violazione dell’Art. 2 dello Statuto dell’Onu. I siriani furono sconfitti, ma non vollero firmare un trattato di pace ma bensì solo un accordo per il cessate-il-fuoco. Nel 1967 il Golan fu nuovamente utilizzato dai siriani per aggredire militarmente Israele. Ancora una volta fu un atto illegale di aggressione. Questa volta, però, la vittoria di Israele fu più netta e permise allo Stato ebraico di conquistare le Alture. Israele si mostrò disposto a ritirarsi dal territorio occupato in cambio di un trattato di pace. La risposta della Siria, come di tutti gli altri Stati arabi, arrivò dopo la Conferenza di Khartoum del settembre 1967: «no alla pace con Israele», «no al riconoscimento di Israele» e «no a negoziazioni con Israele». La posizione della Siria non cambiò neanche successivamente all’entrata in vigore della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza con la quale si formalizzava che Israele era lo Stato aggredito. Successivamente una nuova aggressione illegale siriana avvenne nell’ottobre del 1973 e anche questa volta l’esercito siriano fu sconfitto. Un nuovo accordo per il cessate-il-fuoco fu raggiunto nel 1974, ma la Siria ha continuato a rifiutarsi di intavolare delle trattative di pace. Così, il governo israeliano, vista l’impossibilità di trattare con quello siriano e trascorsi numerosi anni dall’occupazione del Golan, nel 1981 decise di estendere la propria sovranità sulle Alture e questo migliorò la qualità di vita di tutti gli abitanti di esse. Appare evidente da quanto esposto che l’occupazione del Golan da parte di Israele è perfettamente legale per il diritto internazionale sia per i ripetuti atti di aggressione armata da parte della Siria, sia per il suo rifiuto nei confronti di ogni soluzione concordata tra le parti fin dal settembre 1967. A distanza di oltre 50 anni dalla guerra dei Sei giorni, rimane solo da stabilire se l’annessione israeliana del 1981 sia compatibile con i principi del diritto internazionale. Questo punto è molto controverso e non trova unanimità di pareri tra i giuristi; anzi, la maggior parte di essi è dell’opinione che questo atto sia illegale. Ma su cosa si basa questa opinione? Su nessuna legge internazionale formalizzata, ma semplicemente su un principio generale e astratto che dichiara “l’inammissibilità di acquisizione territoriale tramite la guerra”. Questo principio è espresso anche nella Risoluzione 242. La domanda da porsi allora è: in caso di guerra difensiva, in quali casi tale principio è stato applicato in tutti i conflitti avvenuti nel mondo? La risposta è, mai una sola volta. In pratica, non esiste alcun caso al mondo di uno Stato che sia stato aggredito da un altro Stato e a cui sia stato imposto di ritirarsi sui confini precedenti al conflitto. Tale principio lo si vuol applicare unicamente nei confronti di Israele.

Potrebbe approfondire le nozioni di «diritto storico» e «legame storico»?

Tali nozioni sono molto importanti ma diversissime dal punto di vista legale. La prima, quella di “diritto storico” ha una piena valenza legale come indicato dal termine “diritto”. Ma è praticamente scomparsa dal diritto internazionale – nella sua forma di diritto consuetudinario – da oltre un secolo. Questo perché in passato questo principio è stato utilizzato, molte volte, per giustificare guerre di aggressione da parte di Stati forti ai danni di Stati più deboli. Un esempio odierno è l’aggressione operata dalla Russia di Putin ai danni dell’Ucraina. Tra le motivazioni addotte da Putin c’è proprio il “diritto storico” dei russi sulla Crimea o sull’Ucraina stessa. Inoltre, se applicato alla lettera questo diritto può portare alla cancellazione dei diritti acquisiti da un’altra popolazione che, nel corso degli anni, talvolta anche in secoli di presenza, si è insediata in un determinato territorio. In pratica evocare il “diritto storico” su un territorio può portare alla cancellazione di tutti gli altri diritti acquisiti. Poi come si fa a stabilire con certezza la data di inizio di un “diritto storico”? Al lato pratico diventa il “diritto del più forte” sul più debole.

Ben diverso è il principio della “connessione storica” utilizzata, ad esempio, nel preambolo del Mandato per la Palestina, che è lo strumento giuridico creato per far nascere lo Stato nazionale per il popolo ebraico. Proprio per le ragioni appena spiegate, il legislatore internazionale non ha voluto utilizzare il principio di “diritto storico” ma quello di “connessione storica” perché quest’ultimo non ha implicazioni legali, però riconosce formalmente il legale tra un popolo e la terra degli avi (solo quella). Il legame, così riconosciuto, deve possedere delle caratteristiche atte per la ricostruzione dello Stato nazionale di un determinato popolo. Queste caratteristiche sono: 1) In un determinato momento storico, il popolo riconosciuto ad avere la “connessione storica”, deve aver avuto il possesso del territorio; 2) Il determinato popolo non vi abbia mai rinunciato esplicitamente o tacitamente; 3) Questo determinato popolo non abbia mai perso il proprio carattere nazionale che lo distingue dagli altri popoli; 4) Il popolo in questione non abbia nel frattempo acquisito altri territori nazionali; 5) devono essere salvaguardati i diritti e gli interessi eventualmente acquisiti nel frattempo da altri popoli che si sono stanziati nel territorio; 6) la “connessione storica” deve essere riconosciuta dalla comunità internazionale.

Cambiando scenario: in che modo, Putin, ha utilizzato il principio del «diritto storico» per giustificare l’invasione, prima, della Crimea e successivamente dell’Ucraina?

Il diritto storico evocato da Putin e dai suoi consiglieri, si basa sul fatto storico che vede la nascita dell’identità nazionale russa nascere nel cuore dell’odierna Ucraina. Una tappa fondamentale di questo processo è stata la battaglia di Poltava del 1709, con la quale lo Zar Pietro I di Russia sconfisse gli svedesi di Carlo XII e diede inizio a quello che può considerarsi uno degli Imperi più grandi nella storia del mondo: quello degli Zar. Fu un fatto fondante dell’identità nazionale russa. Ora, Putin vuole cavalcare quel sentimento per riprendersi dei territori che sono appartenuti prima, all’impero zarista, poi all’Urss. Il discorso per la Crimea è molto simile: la Crimea, da quando fu strappata all’Impero ottomano, verso la fine del XVIII secolo, fece sempre parte della Russia, anche quando fu costituita l’Unione Sovietica e amministrativamente il territorio sovietico fu rimescolato rispetto al periodo zarista, la Crimea rimase all’interno della Repubblica Socialista Sovietica di Russia. È solo nel 1954 che Nikita Chruščëv, l’allora Segretario del partito comunista sovietico, decise di spostare l’Oblast di Crimea all’interno della Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina. Questo, ovviamente, senza consultare la popolazione locale, che dopo il rimescolamento operato da Stalin con le deportazioni della popolazione tatara, era a maggioranza russa. Quando l’Ucraina divenne indipendente del 1991, la Crimea era parte integrante del suo territorio, così per il principio dell’uti possidetis iuris, anche se la maggioranza delle popolazione che è russofona e voleva far parte della Russia, la Crimea fu riconosciuta come territorio ucraino. Putin si fa forza del fatto che, storicamente, la penisola è sempre stata parte della Russia e che la maggioranza della popolazione che la abita è russa e non ucraina. Però le regole del diritto internazionale sono chiare: è parte integrante del territorio ucraino.

I filorussi, di solito, mettono sullo stesso piano l’invasione della Crimea e la nascita del Kosovo. Dal punto di vista giuridico, si tratta di vicende equivalenti o accostabili?

No, non sono due vicende equivalenti. Questo perché l’intervento russo in Crimea è stato fatto per annettersi un territorio che non le apparteneva e questo è chiaramente contro tutte le regole del diritto internazionale. L’intervento NATO, in Kosovo, è stato giustificato per il timore che si potesse verificare un genocidio della popolazione kosovara ad opera dei nazionalisti serbi. Questa è senza dubbio un forzatura che, a mio avviso, contrasta con il diritto internazionale perché prima di poter operare un intervento armato si deve procedere con altri mezzi come previsto dallo Statuto dell’ONU e solo quando tutti gli altri mezzi coercitivi non danno esito si può ricorrere alle operazioni militari. Però i paesi della NATO, ad iniziare dagli USA, non avevano intenzione di annettersi il Kosovo. In ogni caso il successivo riconoscimento da parte di tanti paesi dell’indipendenza del Kosovo è anch’essa contraria al diritto internazionale perché esso era parte integrante della Serbia anche se godeva di uno statuto speciale fin dai tempi della Jugoslavia. L’unica soluzione prevista dal diritto internazionale per la secessione di un territorio è la negoziazione pacifica tra le parti. Gli interventi armati sono giustificati sono in casi palesi di grave minaccia alla pace o in presenza di gravi crimini contro l’umanità, non per creare gli Stati.

 

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