Pierre-André Taguieff è uno dei più autorevoli intellettuali europei contemporanei nel campo della scienza politica e della storia delle idee. Appassionato fin da giovane di cultura ebraica, Taguieff si è affermato come uno dei più importanti studiosi di antisemitismo, razzismo e antirazzismo. Direttore di ricerca presso il CNRS (Centre national de la recherche scientifique), ha insegnato per molti anni all’Institut d’études politiques di Parigi. Ha accettato di rispondere alle domande de L’Informale.
Prof. Taguieff, Sentiamo spesso dire «non sono antisemita, ma antisionista». Come possiamo definire l’antisionismo contemporaneo? Lei usa il termine «antisionismo radicale», cosa intende?
La sua domanda merita una risposta articolata: è opportuno distinguere i quattro significati principali del termine «antisionismo» che, nelle controversie, spesso interferiscono e si sovrappongono. Elenchiamoli brevemente: 1) L’opposizione al progetto sionista così come è stato definito alla fine del XIX secolo, sulla scia del grande precursore Moses Hess (Roma e Gerusalemme. L’ultima questione delle nazionalità, 1862), da Leo Pinsker nel 1882 (Auto-emancipazione), poi da Theodor Herzl che, nel 1896, pubblica Der Judenstaat. Si tratta quindi del rifiuto dell’idea sionista, cioè del movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico; 2) la critica alla politica israeliana, una critica che può essere sistematica o meno. Nel primo caso, essa esprime la volontà di delegittimare lo Stato di Israele qualunque cosa faccia; nel secondo caso, si riduce a una critica politica di questa o quella decisione o azione, che può essere giustificata o meno; 3) La denuncia del «sionismo mondiale», che spesso assume una forma complottista e ricicla gli stereotipi associati alla figura mitica dell’«ebreo internazionale» o a quella dei «Saggi di Sion», dotati di un potere smisurato. Il mito antiebraico per eccellenza, quello della «cospirazione ebraica internazionale», si è trasformato in «cospirazione sionista mondiale»; 4) La negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele, nonché il progetto e la volontà di distruggere questo Stato-nazione ritenuto illegittimo per sostituirlo con uno Stato palestinese o uno Stato islamico. Questa è la caratteristica principale di ciò che io chiamo antisionismo radicale o assoluto. È nota la minacciosa profezia del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna, citata nel preambolo della Carta di Hamas, resa pubblica nell’agosto 1988, «Israele sorgerà e rimarrà in piedi finché l’Islam non lo eliminerà, come ha eliminato i suoi predecessori». La profezia viene regolarmente ripetuta dai predicatori musulmani che partecipano alla propaganda palestinese. È principalmente in riferimento a questo antisionismo islamista sterminatore che si può definire l’antisionismo radicale non solo come la principale figura contemporanea della giudeomisia, ma anche come una forma contemporanea di razzismo, particolarmente perversa e sottile, poiché si richiama all’antirazzismo e all’anticolonialismo. Se infatti il sionismo è una «forma di razzismo» associata a un’impresa coloniale e se Israele è uno «Stato razzista» o uno «Stato di apartheid», allora la distruzione di quest’ultimo è un obiettivo prioritario della lotta antirazzista. Per i nemici incondizionati dello Stato di Israele, il significato politico della parola «antisionismo» si è così ridotto all’accoppiamento di due posizioni di principio: l’antirazzismo e l’anticolonialismo. L’evidenza ideologica si è affermata: essere antirazzisti e anticolonialisti significa necessariamente essere antisionisti.
Avrà notato anche lei, che l’odio verso Israele assume tratti religiosi. Da dove deriva questa avversione ossessiva?
L’antisionismo sterminatore funziona anche e soprattutto come antisionismo redentore, svelando la dimensione teologico-religiosa, persino gnostica, attraverso la visione manichea che presuppone, del jihadismo antiebraico. Le sinistre rivoluzionarie, dette «radicali», che credono ancora che la violenza sia «l’arma dei poveri», proiettano sui jihadisti palestinesi, seguaci della presunta «religione dei deboli», le loro utopie e le loro aspettative messianiche di un grande cambiamento purificatore. E, di conseguenza, criminalizzano e demonizzano i «sionisti», fino a nazificarli trasformandoli in esecutori di un «genocidio». Questa operazione, diciamo la nazificazione dei «sionisti», era stata identificata e analizzata già alla fine degli anni ’60, dopo la guerra dei Sei Giorni, da due grandi autori, il filosofo Vladimir Jankélévitch e lo storico Léon Poliakov.
Non solo politica quindi…
No. Qui non siamo semplicemente nel campo politico, perché il progetto di distruggere Israele assume per i suoi promotori un significato apocalittico e redentore. Diciamo che credono di poter salvare il genere umano – qualunque sia la loro definizione di esso – eliminando il «cancro» che lo minaccia di morte. Ricorrono spesso alla metafora medica e patologizzante del «cancro» per giustificare l’operazione chirurgica che, secondo loro, salverebbe il genere umano. Vogliono così, senza saperlo, annullare quello che bisogna chiamare il «miracolo» della nascita di Israele. I nemici di Israele sognano una seconda Shoah, commessa questa volta in nome dei «diritti umani» e di un «antirazzismo» perverso, diventato il rifugio e l’alibi dei nuovi nemici degli ebrei. Dall’inizio degli anni ’70, le propagande anti-israeliane – in primo luogo quella arabo-musulmana e quella sovietica – hanno infatti convergerono per rendere ideologicamente accettabile l’equazione «sionismo = razzismo», in linea con l’equazione «sionismo = colonialismo», lanciata all’epoca della decolonizzazione. Con l’ascesa al potere in Iran dell’ayatollah Ruhollah Khomeini – noto per il suo odio «teologico» verso gli ebrei –, la demonizzazione del sionismo e di Israele, estesa a quella degli ebrei designati come nemici dell’Islam, ha occupato un posto centrale nella propaganda islamista, che metteva in primo piano la questione palestinese e invocava il jihad contro gli ebrei. «Incarnazione del male», gli ebrei sono descritti da Khomeini come un «gruppo astuto e ingegnoso» che lotta per il «dominio ebraico» sui musulmani e «vede la distruzione dell’Islam come una tappa essenziale per il raggiungimento dei propri obiettivi». L’amalgama polemico tra «sionismo» e «imperialismo» è una costante della retorica «antisionista» diffusa dalla propaganda sovietica, poi ripresa dall’estrema sinistra, da una parte della sinistra e dai paesi arabi, nonché dall’Iran.
Quale ruolo gioca la sinistra occidentale in questo apocalittismo politico?
Come dicevo, l’antisionismo radicale può essere definito come uno pseudo-antirazzismo razzista, il cui obiettivo è la totale delegittimazione di Israele, preliminare alla sua distruzione. L’israelicidio è la verità della propaganda antisionista. Piuttosto che di antisemitismo, neoantisemitismo, antigiudaismo o giudeofobia, sarebbe meglio parlare in questo caso di «giudeomisia», come ho proposto, poiché non si tratta di paura (phóbos) ma di odio (mîsos), inoltre, l’opposizione tra «semiti» e «ariani» non è più attuale. Con l’antisionismo radicale, l’odio verso gli ebrei si è globalizzato ed è entrato in una nuova era. E questo proprio nel momento in cui l’odio verso l’Occidente, che potremmo chiamare «esperomisia» (Esperia, in greco «terra del tramonto»), sta per succedere all’esperofobia, la vecchia paura dell’Occidente imperialista e colonizzatore. Nel gioco delle passioni negative politicizzate, l’odio prevale sulla paura, un odio che sogna di far scomparire il suo oggetto. Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare all’indomani del processo di Norimberga, la storia dei progetti di «giudeocidio» non è finita. L’antisionismo radicale trae quindi gran parte del suo potere di seduzione dalla sua riuscita strumentalizzazione del neo-antirazzismo. Ma quest’ultimo si inscrive a sua volta nello spazio «neo-sinistrorso», in formazione dagli anni ’90. È in questo spazio politico-culturale di estrema sinistra che è stato intellettualizzato. Chiamo «neo-sinistroidi» i nuovi sinistroidi che, pur affermandosi classicamente come anticapitalisti e anti-imperialisti, si caratterizzano per la loro critica radicale al repubblicanesimo alla francese (ridotto a a una forma di nazionalismo), dal loro rifiuto della laicità (che alimenterebbe e maschererebbe l’islamofobia), dai loro pregiudizi islamofili (l’Islam percepito come la «religione dei poveri» o degli «oppressi») o addirittura «islamismofilia» (l’islamismo esaltato come movimento di resistenza nato dalla rivolta delle vittime dell’islamofobia), dal loro antirazzismo razzista (che io chiamo «neo-antirazzismo») che consiste nell’accusare «i bianchi» di tutte le disgrazie dei popoli «non bianchi», al loro neo-femminismo misandrico (contro «l’eteropatriarcato») e intersezionale, fino al sostegno al postcolonialismo e al decolonialismo, modo per loro di rimanere marxisti, e a una gnosi ecologista incentrata su visioni apocalittiche accompagnate da una ricerca permanente dei colpevoli delle disgrazie del pianeta (il nemico davanti all’intera umanità), infine dal loro antisionismo radicale (il sionismo ridotto a colonialismo, imperialismo e razzismo), inseparabile dal loro odio per l’Occidente (denunciato come intrinsecamente sfruttatore, predatore e genocida).
Assistiamo, dunque, al sovrapporsi e all’intrecciarsi di due forme di odio…
Esatto. Ormai, l’odio per gli ebrei e l’odio per l’Occidente si intrecciano, al punto che si può affermare che giudeomisia fa rima con espersomisia come giudeofobia faceva rima con esperofobia. Essendo associati i due obiettivi principali, gli ebrei e gli occidentali; è in atto il passaggio dalla paura all’odio. L’odio verso l’Occidente giudaico-cristiano è oggi inseparabile dall’odio verso Israele e il «sionismo mondiale».
Oggi, dunque, è possibile odiare gli ebrei in nome dei valori democratici e dei diritti umani.
L’accettazione dell’odio antiebraico è stata accompagnata da un grande ribaltamento dei ruoli assegnati ai «sionisti» e ai loro nemici: questi ultimi, nella loro lotta finale contro «l’entità sionista», hanno potuto rivendicare l’antirazzismo, l’anticolonialismo e l’antifascismo, quindi valori riconosciuti come democratici o umanistici. La causa palestinese si è confusa con la causa antisionista per essere elevata a «causa universale». È in nome della morale universale, dei diritti umani e del diritto internazionale, che viene ora giustificato e celebrato il progetto di eliminare lo Stato di Israele. Contrariamente al genocidio nazista, compiuto in nome della difesa della «razza ariana» contro il «pericolo ebraico», l’israelicidio programmato dagli antisionisti radicali trova la sua legittimazione nell’imperativo primario della nuova morale umanitaria di ispirazione vittimistica: difendere e salvare dal «genocidio» questo popolo di vittime ereditarie che sarebbero «i palestinesi». La struttura che accoglie questo odio antiebraico accettabile è un democratismo iperbolico il cui motore è soprattutto passionale, definibile come un misto di empatia e compassione nei confronti delle presunte vittime dei «sionisti», a loro volta nazificati. Come si può osare difendere i «dominanti», gli «oppressori», i «razzisti» e i «colonialisti» contro i «dominati», gli «oppressi», i «razzializzati» e i «colonizzati»? I «sionisti» si sono trasformati in «fascisti», se non addirittura in «nazisti», che, dalla risposta militare israeliana al mega-pogrom del 7 ottobre 2023, sono accusati di commettere un «genocidio dei palestinesi». Da quando è diventata credibile e diffusa a livello mondiale, questa grande inversione vittimistica è sufficiente a rendere non solo accettabile, ma altamente desiderabile il progetto di un israelicidio. Si riconosce l’idea guida: con l’antisionismo «democratico» e «umanista» o «umanitario», le barriere imposte dal senso di colpa sono state gradualmente eliminate, lasciando campo libero all’odio omicida che si esprime comodamente in nome della giustizia, del rispetto dei diritti umani e della pace. Nel discorso antisionista globalizzato, il bersaglio ebraico è stato allo stesso tempo ridefinito: la denuncia del «sionismo mondiale», incarnazione della chimera nota come «lobby ebraica» universale, ha marginalizzato quella del sionismo come forma detestabile di nazionalismo avvolto dall’etnocentrismo e dalla xenofobia. Il «sionismo», così come è ora demonizzato, ha assunto la figura estremamente inquietante di un pan-sionismo o di un pan-giudaismo, ovvero di un imperialismo o di un suprematismo ebraico senza confini. Coloro che credono nell’esistenza di questa iperpotenza espansionista e spietata, tanto più dannosa in quanto invisibile ai comuni mortali, sono presi dal terrore. È così che l’odio totale genera una grande paura.
Ancora una volta i Protocolli. Quale ruolo giocano ancora nel panorama attuale?
Dopo la sconfitta della coalizione araba all’inizio di giugno 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni, si è assistito a un’intensificazione dell’uso politico dei Protocolli e dei testi complottisti da essi derivati. Era necessario spiegare la sconfitta delle armate arabe da parte del piccolo Stato di Israele senza mettere in dubbio il coraggio dei combattenti né la competenza dei loro capi. Il mito del grande «complotto sionista», che implicava l’intervento di una presunta superpotenza «sionista», permetteva di salvare l’onore dei «fieri arabi». I Protocolli furono quindi utilizzati nella lotta contro Israele e il «sionismo mondiale», espressione polemica che designava l’entità chimerica che, nella mitologia «antisionista», ha preso il posto del «giudaismo mondiale» o della «giudaicità internazionale» denunciati un tempo dagli ideologi cattolici o protestanti tradizionalisti e dai propagandisti nazisti, tutti seguaci della visione cospirazionista della Storia. Nel 1985, nell’Iran dell’ayatollah Khomeini, l’Organizzazione per la Propaganda Islamica pubblica a Teheran una ristampa dell’edizione libanese del novembre 1967, con lo stesso titolo: Protocolli dei Saggi di Sion. Testo completo conforme all’originale adottato dal Congresso sionista a Basilea (Svizzera) nel 1897. In tutti i testi che, ispirandosi ai Protocolli, denunciano la «cospirazione sionista mondiale», quest’ultima ha un obiettivo finale: il dominio del mondo da parte degli ebrei. In altre parole, «ebrei» e «sionisti» funzionano come sinonimi. La «cospirazione ebraica internazionale» e la «cospirazione sionista mondiale» hanno lo stesso riferimento.
Come si spiega il successo di un falso così grossolano?
È necessario sottolineare l’importanza dei miti antiebraici nella storia delle configurazioni antiebraiche. La mia tesi è la seguente: se il mito della cospirazione sionista mondiale è al centro dell’antisionismo radicale, è perché questo mito, apparso nel corso del XX secolo, si colloca all’incrocio di tutti gli altri miti antiebraici. Li attrae e li ingloba o li integra. Funziona nei loro confronti come una calamita e un operatore di sintesi di tutti i tipi di accuse mosse contro gli ebrei. Le passioni antiebraiche sono inseparabili dai racconti in cui gli ebrei sono demonizzati, patologizzati o criminalizzati, definiti da attributi essenzialmente negativi. Ora, «un mito è in un certo senso invulnerabile», perché «è impermeabile alle argomentazioni razionali e non può essere confutato dai sillogismi», come osservava Ernst Cassirer in Il mito dello Stato.
I Protocolli sono transitati in terra islamica, producendo un mix esplosivo di odio religioso e cospirazionismo. Cosa può dire a riguardo?
La tematica cospirativa antiebraica di origine europea è stata poi integrata e ritradotta nel discorso islamista, dando vita al mito del complotto sionista mondiale, elemento centrale della propaganda antisionista a partire dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948. Così, nel suo opuscolo La nostra lotta contro gli ebrei, pubblicato all’inizio degli anni Cinquanta e diventato un testo di riferimento per la maggior parte dei movimenti islamisti, il Fratello Musulmano Sayyid Qutb definisce gli ebrei come cospiratori, bugiardi e criminali, identificandoli come i più antichi e temibili nemici dell’Islam.
Come si diventa odiatori degli ebrei?
Si entra nell’antisemitismo attraverso uno dei miti antiebraici che, diventando oggetto di fede, spinge a credere in altri miti. Sono tante le porte d’accesso all’immaginario antiebraico, al credere giudeofobo, tanti i passaggi verso lo spazio della giudeofobia. Attraverso un meccanismo di conferma, le credenze antiebraiche, accumulandosi, si rafforzano a vicenda. Aprire una porta significa trovarsi nella condizione di aprirne altre. Certo, è raro osservare che un antisemita convinto enunci tutta la sequenza delle accuse trasformate in dogmi di fede. Così, ad esempio, presso antisemiti anticristiani come Eugen Dühring o Louis-Ferdinand Céline, non si trova l’accusa di deicidio. Più spesso, il soggetto antiebraico seleziona e gerarchizza, in base al contesto storico-sociale, alle proprie inclinazioni ideologiche e alle circostanze, i temi accusatori, attingendo liberamente e pragmaticamente al repertorio di stereotipi disponibili. I racconti antiebraici si presentano come combinazioni variabili di temi, credenze e rappresentazioni. Il soggetto astratto e ripugnante, il contro-tipo che tutti questi racconti accusatori contribuiscono a costruire, è «l’ebreo»: cioè il popolo ebraico essenzializzato, o più esattamente la sua rappresentazione, accompagnata da un insieme di tratti negativi. È per questo che si parla, seguendo Leo Pinsker e Raymond Aron, di «odio astratto», che, demonizzando una categoria di popolazione, impone una visione manichea del mondo. Si ricordi la tesi fondamentale di Sartre nelle Riflessioni sulla questione ebraica (1946): «L’antisemitismo è una concezione del mondo manichea e primitiva, in cui l’odio verso l’ebreo occupa il posto di grande mito esplicativo». Il contro-tipo, «l’ebreo», è così costruito da coloro che lo odiano e lo temono come il nemico satanico del genere umano e di Dio, il criminale per eccellenza, lo sfruttatore o truffatore per vocazione, il bugiardo per natura, il parassita e il cospiratore nato. I teorici rivoluzionari dell’ultimo terzo del XIX secolo arricchirono lo stock di queste accuse demonizzanti contro i «Semiti» o gli «Ebreo». Il blanquista e comunardo Gustave Tridon, nel suo libro postumo Del molochismo ebraico (1884), accusa gli ebrei di praticare un cannibalismo rituale – «Il tempio semitico è un lupanare che si bagna nel sangue» e la Pasqua ebraica, o Pesach, sarebbe stata all’origine «un banchetto di cannibali» – di essere privi di sentimento patriottico e di aver introdotto l’intolleranza nelle società umane – «L’intolleranza è l’eredità semitica al nostro mondo».
Lei ha parlato di israelicidio, cosa intende?
A partire dagli anni Cinquanta, si è assistito a una lenta reinvenzione di una visione antiebraica del mondo, all’invenzione di una giudeofobia post-nazista paradossale, poiché ricicla molte credenze e rappresentazioni dell’antisemitismo nazista, integrandole nella visione cosiddetta «antisionista». Questa nuova configurazione antiebraica appare dunque al contempo post-nazista e neo-nazista. La creazione dello Stato d’Israele il 14 maggio 1948, nonostante il rifiuto arabo e musulmano che si è tradotto in una serie di conflitti armati, è stata denunciata come una «catastrofe» o un crimine dai nemici del progetto sionista. La ri-demonizzazione degli ebrei si è attuata attraverso la demonizzazione di Israele e del «sionismo» immaginato in modo complottista come «sionismo mondiale», cioè come manifestazione e mascheramento di un progetto ebraico di dominio universale. Parallelamente, mentre i palestinesi sono stati mitizzati come vittime, parte di un popolo martire, i «sionisti» sono stati criminalizzati dalle propagande antisioniste. Per gli ideologi islamo-palestinisti, l’israelicidio si iscrive in un programma di sterminio più ampio, nient’altro che un giudeocidio da compiersi in tutte le regioni del mondo. La lotta nazionalsocialista contro l’«ebraismo mondiale» è stata ritradotta nella retorica della propaganda islamista come lotta contro il «sionismo mondiale». L’«ebreo internazionale» si è trasformato in rappresentante del «sionismo mondiale» Ma, in questa prospettiva, tutti gli ebrei, israeliani o meno, dichiaratamente sionisti o meno, sono immaginati come membri di uno stesso gruppo transnazionale, concepito come una setta conquistatrice, la cui esistenza rappresenta una minaccia mortale per l’umanità e che, di conseguenza, va eliminata con ogni mezzo. L’antisionismo radicale o sterminatore rappresenta la più recente forma storica assunta dall’odio contro gli ebrei, che lo si chiami antigiudaismo, giudeofobia, antisemitismo o «giudeomisìa». Il suo obiettivo è legittimare la distruzione di Israele e realizzare una «pulizia etnica» antiebraica della «Palestina liberata», banalizzando l’assimilazione polemica di Israele a uno «Stato razzista» o di «apartheid», «colonialista», «criminale» e «genocidario», mentre «sionizza», cioè demonizza, tutti gli ebrei, considerati come nemici dell’umanità che devono quindi essere sterminati. L’antisionismo radicale è una macchina per l’eradicazione.
Genocidio non è quello compiuto da Israele a Gaza, ma quelle desiderato dai suo nemici.
La risposta militare di Israele al mega-pogrom del 7 ottobre 2023 come un’operazione di denazificazione della Striscia di Gaza. Ma il rovesciamento vittimario non ha tardato a emergere nei discorsi della propaganda antisionista. Gli ambienti di sinistra occidentali affiliati all’islamo-palestinismo, in particolare nel mondo accademico e culturale, hanno iniziato ad accusare Israele — vittima di un massacro d’ispirazione genocidaria e quindi in stato di legittima difesa — di compiere un «genocidio» nella Striscia di Gaza. In assenza di una volontà genocidaria che possa essere provata, l’accusa rientra nella propaganda di guerra, in cui ogni menzogna è ammessa. Il 29 dicembre 2023, ciò nonostante, il Sudafrica ha presentato alla Corte internazionale di giustizia (CIJ) dell’Aia un ricorso contro lo Stato di Israele per «atti genocidari commessi contro il popolo palestinese». La nazificazione del «sionismo» e di Israele è così ripartita con nuova forza. In conclusione possiamo dire che il genocidio è l’orizzonte dell’antisionismo, divenuto una visione del mondo strutturata dalla demonizzazione del nemico unico (l’ebreo-sionista) e da un programma di «purificazione» del genere umano, che implica la distruzione della «entità cancerogena» chiamata Israele.
Traduzione di Davide Cavaliere
