“L’unica logica sottostante la richiesta di uno stato palestinese è l’imperativo politico degli avversari di Israele di indebolire e circondare lo stato ebraico, riducendo di conseguenza il suo potenziale di stabilire confini difendibili e sicuri. L’ironia crudele è che usando il popolo palestinese come la punta della lancia contro Israele, i suoi supposti sostenitori hanno causato ai palestinesi una protratta sofferenza. Il loro benessere economico, il loro potenziale per lo sviluppo e la prospettiva di vivere sotto un governo rappresentativo non corrotto sono andati persi nel tentativo di mettere in mora lo stesso diritto all’esistenza di Israele”.
Così scriveva John R. Bolton, una delle più brillanti intelligenze politiche e strategiche in circolazione, in un articolo apparso nel 2014 sul Washington Times. Oggi Bolton è diventato il nuovo Consigliere per la Sicurezza Nazionale al posto del generale McMaster. Per Israele la scelta non potrebbe essere migliore. L’ex ambasciatore americano all’ONU, già interno all’amministrazione di George W. Bush, è un ulteriore passo avanti verso il realismo che sempre più contraddistingue le decisioni di Donald Trump relative al Medioriente.
Dalla dichiarazione su Gerusalemme capitale di Israele, ai tagli dei fondi all’UNRWA, al Taylor Force Act, il disegno di legge inserito nella manovra di bilancio, il cui scopo è quello di sospendere all’Autorità Palestinese i fondi utilizzati per pagare i terroristi incarcerati, l’amministrazione Trump si sta muovendo con risoluta determinazione per smantellare uno dopo l’altro alcuni dei pilastri su cui per decenni si è appoggiato il governo di Ramallah.
In realtà, la stessa opzione dei due stati, feticcio inossidabile di tutte le presidenze americane dai primi anni ’90 ad oggi, e che John R. Bolton considera defunta, non è mai stata l’opzione rilanciata da Donald Trump. Di fatto, non si sa ancora, al di là di indiscrezioni, quale sia la forma definitiva del piano di pace ancora in cantiere alla Casa Bianca, e sul quale, inesorabilmente, l’ex ambasciatore Bolton esprimerà il suo parere. Da tempo egli è un promotore della soluzione dei “tre stati” la quale prevede l’annessione della popolazione palestinese in Cisgiordania alla Giordania e il ritorno di Gaza all’Egitto.
Sempre sul Washington Times nel 2014, Bolton scriveva “Per molti, mettere fine alla ricerca della ‘soluzione dei due stati’ sarà come rinunciare alla ricerca del Vello D’Oro…Nonostante ciò la nostra esperienza nell’arco degli ultimi decenni prova in modo conclusivo che né i palestinesi, né Israele, né gli Stati Uniti possano ottenere alcun beneficio nel continuare a perseguire un’illusione”.
Difficile dargli torto, soprattutto quando si pensa come lui che la diplomazia nei confronti di stati canaglia o gruppi terroristici funziona solo fino a un certo punto come ebbe a specificare in un suo articolo del 2009 apparso su The Commentary, in cui scriveva, “La diplomazia è uno strumento, non è una politica. E’ una tecnica, non un fine in se stesso. Premere, per quanto onestamente, affinchè ci confrontiamo con i nostri nemici, non ci dice nulla di quello che accadrà dopo le cortesie iniziali…Una diplomazia efficace deve essere un aspetto di uno spettro strategico più ampio che includa confronti pubblici brutali. Senza la minaccia di sanzioni dolorose, dure condanne, e anche dell’uso della forza, la diplomazia rischia di trasformarsi in un gioco per perdenti, in cui una parte resterà seduta per sempre nell’ingenua speranza di giungere a un accordo mentre l’altra parte agirà secondo la propria volontà”. In questo senso, Bolton non ha mai fatto mistero delle sue posizioni interventiste, sia al tempo della Seconda Guerra del Golfo, sia in merito all’Iran e alla Corea del Nord.
Quindici anni fa, allora sottosegretario di Stato, esprimeva il suo dissenso alla politica negoziale di Bill Clinton nei confronti di Kim Jung II. Gli era chiaro che non avrebbe portato a nulla di buono. Successivamente è stato uno strenuo oppositore dell’accordo sul nucleare iraniano. A gennaio di quest’anno dichiarava al Wall Street Journal, “Trascorrere i prossimi 120 giorni negoziando tra di noi lascerà l’Occidente impantanato in una stasi. Trump vede correttamente che l’accordo voluto da Obama è un errore madornale, ma i suoi consiglieri, incomprensibilmente, lo hanno persuaso a non uscirne”.
Sicuramente non sarà quello che lui gli consiglierà. Per Bolton, come per il nuovo Segretario di Stato, Mike Pompeo, al deal con l’Iran voluto da Barack Obama si può rimediare solo in un modo, affossandolo. Su questa posizione è perfettamente allineato con Benjamin Netanyahu e oggi anche con l’Arabia Saudita pronta a dotarsi di armi nucleari nel caso in cui l’accordo con l’Iran dovesse rimanere in piedi.
Con la nomina di John R. Bolton, Trump ha messo a segno una tripletta formidabile. Insieme a Mike Pompeo e a Nikki Haley all’ONU, il presidente americano ha ora accanto a sé tre figure fortemente dalla parte delle ragioni di Israele, e convinte come lui, che la priorità in Medioriente sia il contenimento dell’espansionismo iraniano il quale viaggia di pari passo con il suo depotenziamento come minaccia nucleare. Dopo Pompeo e ora con l’arrivo di Bolton diventa difficile scommettere che da qui al 12 di maggio, la deadline fissata da Trump all’Europa per emendare l’accordo sul nucleare con clausole più restrittive nei confronti di Teheran, quest’ultimo possa sopravvivere.