Al Forum economico di Davos, seduto a fianco di Benjamin Netanyahu, Donald Trump ha fatto Donald Trump. Ha parlato estemporaneamente, senza filtri, toccherà poi ai funzionari della Casa Bianca eventualmente fare l’esegesi delle sue parole, correre ai ripari, edulcorare, imbellettare, anche se qui faranno un po’ fatica a modificarle.
Cosa è accaduto? Che il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato senza tanti giri di parole che se Abu Mazen e il suo entourage non si siederanno a un tavolo negoziale con Israele, gli USA procederanno con il taglio di altri fondi.
I soldi americani, centinaia di miliardi, sono il maggiore contributo che l’Occidente versa all’Autorità Palestinese, fondi che sarebbero dovuti servire negli anni a migliorare le condizioni dei palestinesi e a trasformare Arafat e il suo clan in nationbuilders. La realtà non ha fatto che smentire questa scommessa folle, e dopo ruberie continue, ammassamenti di ricchezze personali stratosferiche e terrorismo, terrorismo, terrorismo, ora, con questa presidenza americana sembra si sia giunti finalmente a una svolta. Ma non è una svolta determinata solo dal brutale pragmatismo del dealer Trump, no, è una svolta determinata anche dal mutare delle condizioni geopolitiche mediorientali, dove sempre di più la “questione palestinese” è percepita dagli stati arabi come un relitto del passato, un ingombro ideologico da rimuovere a fronte di altre questioni di rilevanza ben maggiore, come l’espansionismo regionale iraniano, la minaccia dell’ISIS e quella generale dell’integralismo islamico.
Dopo il riconoscimento fatto da Trump il 6 dicembre scorso di Gerusalemme capitale di Israele, tutta la politica americana dell’ultimo ventennio relativa al conflitto arabo-israeliano, imperniata sul traccheggiamento, su un costate gioco a rimpiattino, su un inutile balletto di rituali e cerimoniali inconcludenti, è venuta giù di botto come un fondale di teatro.
Abu Mazen, il vecchio biscazziere che negli anni non ha fatto altro che fuggire da ogni opportunità di negoziare seriamente con Israele (la più clamorosa e vantaggiosa quella propostagli da Olmert nel 2008), si è trovato definitivamente a dimostrare a tutti ciò che è sempre stato, un re travicello esperto in chiagni e fotti, pronto a correre di qui e di là in Europa cercando sponde per attestare il riconoscimento di uno Stato inesistente, invece di sedersi a un tavolo e provare a negoziare per farlo venire in essere realmente.
Da qui il suo pietoso recente show a Ramallah, dove con faccia truce e pugni serrati si è messo a inveire contro Trump e Israele raccontando ai presenti convenuti la solita stanca storia dell’impresa colonialista sionista, di una fantasiosa e grottesca discendenza araba dai cananei, di complotti ebraici, per poi correre in Europa sperando di sentirsi dire “Ci pensiamo noi a rimpiazzare gli USA”. Noi chi? E a Bruxelles dopo i baci e abbracci con Federica Mogherini si è sentito spiegare che senza la mediazione USA nessun processo diplomatico è possibile. Quindi è tornato a Ramallah, dove gli è stato consegnato un jet privato dal costo di 50 milioni di dollari. Soldi provenienti dalle casse dell’Autorità Palestinese giunti dagli Stati Uniti e dall’Europa. Di fronte alle condizioni economiche della maggioranza dei palestinesi abitanti nei territori, un jet privato, del tutto inutile, è solo uno sberleffo osceno.
A Davos, Trump, con le sue parole nette ha messo in mora tutto questo evidenziando ulteriormente che la musica è finita, la musica suonata fino ad ora, aggiungendo un altro schiaffo in faccia alla dirigenza di Ramallah: “Gerusalemme”, ha detto “E’ una questione già affrontata“, non è più in agenda.
Il rifiuto di Abu Mazen di ricevere Mike Pence, nella sua visita in Israele, è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già ricolmo. Trump ha poca pazienza, ma una cosa la sa per certa, che senza gli Stati Uniti, senza il loro sostegno economico. il regno costruito da Arafat e continuato dal suo successore cesserebbe rapidamente di esistere nel giro di pochi mesi. E lo sa anche Abu Mazen.
Una eventuale pace, un compromesso può giungere solo basandosi sulla realtà. E la realtà è che i palestinesi hanno perso, che è finita da almeno un decennio, dopo il fallimento sanguinario della Seconda Intifada, malgrado l’Europa sostenga ideologicamente chi la pace non l’ha mai voluta ma al suo posto ha sempre cercato impotente di trovare il modo di cancellare lo Stato ebraico dalla mappa del Medioriente.
E’ solo obbligando lo sconfitto a riconoscere la resa che si può negoziare la pace. Trump forse non ha letto Von Clausewitz, ma lo sa di istinto.