Islam e radicalismo islamico

Indottrinamento jihadista ad uso dei più piccoli

La tesi secondo cui l’esercito israeliano affamerebbe e ucciderebbe, addirittura «per gioco», i bambini «palestinesi» ha una sola funzione: consente a chi la sostiene di odiare gli ebrei con la coscienza tranquilla. Ai «filopalestinesi» non importa nulla dei bambini arabi, se non quando la loro morte diventa uno strumento per amplificare la loro ostilità a Israele, rendendola più esplicita e sguaiata. 

A Gaza, come nella cosiddetta «Cisgiordania», i bambini sono sempre morti, ma perivano per mano di Hamas o di al-Fatah, pertanto non suscitavano alcuna indignazione. Dato che ogni atto militare dei «palestinesi» viene rapidamente rubricato sotto la nobile categoria di «resistenza», nessun urlatore dello slogan «Palestina libera» si è mai preoccupato di denunciare la trasformazione dei fanciulli arabi in combattenti o in attentatori suicidi.

Il primo utilizzo di bambini-soldato risale al 1969. L’al-Fatah di Arafat armò due tredicenni che, il 9 settembre del medesimo anno, assaltarono con bombe a mano la sede della compagnia aerea israeliana El Al a Bruxelles. Nel 2002, durante la seconda Intifada, la sedicenne Ayat, uccise una sua coetanea ebrea facendosi esplodere. Nel 2005, un’altra ragazza, la quindicenne Noura, cercò di accoltellare dei soldati israeliani a un check-point. 

Sono solo alcuni esempi. L’elenco, purtroppo, è molto più lungo. Le varie sigle terroristiche – da al-Fatah ad Hamas, dalla Jiahd Islamica Palestinese alle Brigate dei martiri di al-Aqsa – negano ogni coinvolgimento, parlando di atti «spontanei» e «volontari». Ma si tratta di una menzogna: il reclutamento dei fanciulli per scopi bellici e terroristici è una prassi consolidata, che rientra nella strategia militare degli jihadisti. La stessa Jihad Islamica ha ammesso, in un caso del 2002, di avere insegnato a un sedicenne a guidare per poterlo utilizzare come pilota kamikaze di un’autobomba.

Hamas non ha impiegato i bambini solo nelle sue azioni terroristiche, ma anche come forza lavoro schiavile per scavare i rifugi sotterranei dei miliziani e i tunnel che questi impiegano per entrare di straforo in Israele. Nel 2012, si stimavano in 160 i bambini deceduti nelle operazioni di scavo, schiacciati da pietre e colate di detriti, asfissiati a diversi metri sotto terra o pestati a morte dai membri di Hamas quando incapaci di reggere i massacranti turni di lavoro. 

I bambini «palestinesi» crescono immersi in un clima di odio, di disprezzo degli ebrei, di radicale disumanizzazione del «nemico sionista». I testi scolastici contengono istigazioni all’odio e al martirio, teorie del «complotto ebraico» e celebrazione della violenza. La loro anima viene costantemente storpiata da adulti assetati di sangue, il tutto nel silenzio delle organizzazioni umanitarie e dei «filopalestinesi» occidentali. 

La TV palestinese Al Aqsa, controllata da Hamas, diffonde interviste ai figli di genitori kamikaze. Nel 2007, ai bambini Dohah e Mohammed, figli di Rim Al-Riyashi, una donna che tre anni prima si  fece saltare per aria a un posto di blocco tra Israele e Gaza, venne fatta recitare in diretta una poesia inneggiante al martirio della madre, definita «una bomba di fuoco». 

I fanciulli sono sempre in prima linea nelle manifestazioni pubbliche di Hamas. Indossano il sudario dei martiri, cinture esplosive, sulla fronte la fascia nera dei kamikaze, impugnano mitra e coltelli. È diventata celebre una foto di Yahya Sinwar, pianificatore della strage del 7 ottobre, mentre espone fiero un bambino che impugna un mitra a una folla festante e plaudente di «civili palestinesi». 

Nessun «propal» si è mai indignato per i civili siriani, tra cui innumerevoli bambini e ragazzi, assassinati brutalmente degli alleati dei «palestinesi» in Siria, ossia dall’esercito di Assad, da Hezbollah e dai pasdaran iraniani. Ad Aleppo, sembra che questi «nemici del colonialismo sionista» scaldassero un’enorme piastra di metallo e vi gettassero sopra i detenuti affinché confessassero crimini reali o presunti. 

Qualcuno sarebbe tentato di affermare che non importa chi uccida un bambino, se Hamas o Israele, poiché la morte di un fanciullo è sempre una tragedia, ma si tratterebbe di una scandalosa equivalenza morale. Le azioni dell’IDF hanno certamente causato la morte di bambini e ragazzi, ma si è trattato di decessi accidentali, «danni collaterali» inevitabili nel contesto di un conflitto dove le abitazioni civili vengono sistematicamente utilizzate come basi militari. Ben diversa, nonché moralmente riprovevole e ingiustificabile, è la trasformazione di giovani e giovanissimi in carne da cannone.

L’ONU, con l’UNICEF e l’UNWRA in testa, fanno acriticamente propri i dinieghi di Hamas, chiudendo gli occhi sui crimini contro l’infanzia commessi con atroce regolarità dai «resistenti palestinesi», preferendo concentrarsi sui presunti abusi compiuti da Israele – «abusi» perlopiù inventati dalla propaganda islamista permanente, oppure fatti volutamente distorti al fine di farli apparire come «violazioni dei diritti umani». 

I bambini indottrinati, sfruttati e uccisi da Hamas, come si diceva, non suscitano indignazione perché non legittimano alcuno sfogo antiebraico e anti-israeliano. Nessun «filopalestinesi» ha mai urlato (e mai urlerà) «i bambini, signora mia, i bambini!», di fronte ai massacri compiuti in Sudan, Siria o Nigeria. Se non è antisemitismo questo, è difficile capire cosa lo sia. 

 

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