L’annuncio dell’accordo con gli Houti siglato separatamente dagli Stati Uniti appena il giorno dopo che un missile lanciato dalla milizia ribelle yemenita era caduto nelle vicinanze dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv costringendo Israele a bloccarne il traffico, segue l’indiscrezione secondo cui l’Amministrazione Trump non chiederebbe più all’Arabia Saudita, come precondizione per la cooperazione sull’impiego del nucleare a scopo civile, di normalizzare i propri rapporti con Israele. Come riportato dal Times of Israel, un funzionario anonimo di alto livello del tream per i negoziati con l’Arabia Saudita, ha dichiarato che l’accordo con gli Houti sarebbe solo il preludio di un accordo separato con Riad se Israele non si “sveglierà”. Che cosa intendesse non risulta chiaro se non che, un ulteriore articolo pubblicato recentemente da Haaretz, mette in chiaro che Trump desidera che Israele faccia un altro accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi. Questo, mentre Israele si prepara a una annunciata operazione massiccia a Gaza. Sullo sfondo ci sono i negoziati in corso con l’Iran, che riprenderanno domani in Oman. Gli Stati Uniti ufficialmente chiedono all’Iran lo smantellamento del loro programma nucleare, ma appare assai improbabile che Teheran accetti una clausola così drastica.
Dietro la scena
Il 16 aprile il New York Times pubblica un lungo articolo in cui viene svelato nei suoi dettagli il piano di attacco israeliano in Iran finalizzato alla distruzione delle centrali nucleari. L’articolo segue di nove giorni la visita di Benjamin Netanyahu a Washington nel corso della quale Trump lo informa che per quanto riguarda l’Iran, la via dei negoziati è quella privilegiata e che dunque l’ipotesi di un intervento militare è da riporre nell’armadio.
Il 17 aprile, su Commentary, la più blasonata pubblicazione americana ebraica di area conservatrice con sede a Washington, Seth Mandel pubblica un articolo in cui scrive apertamente, senza essere smentito, che il leak del piano di attacco israeliano ha le impronte di Tulsi Gabbard, già filoassadista e filorussa, assurta al ruolo di direttrice dell’intelligence nazionale. Tutto si spiega con la contrapposizione di due fazioni interne all’amministrazione. Nelle parole di Mandel:
“È fondamentale avere un quadro chiaro delle due fazioni all’interno della cerchia ristretta di Trump in materia di sicurezza nazionale. Ci sono i sostenitori della non proliferazione, che danno priorità al blocco della diffusione del potenziale nucleare e poi i rivali interni dei sostenitori della non proliferazione i quali credono in sfere di influenza di stampo novecentesco, con l’obiettivo di esonerare l’America dai propri obblighi”.
Tra i primi figurava Mike Waltz, che quando Mandel scriveva il suo pezzo era ancora consigliere per la sicurezza nazionale, e successivamente sollevato da suo ruolo per essere, eventualmente spostato all’ONU. Ufficialmente il siluramento di Waltz dipenderebbe dal fatto di avere innavvertitamente incluso su Signal, in una chat su temi attinenti alla sicurezza nazionale, Jeffrey Goldberg, il direttore di Atlantic. Tuttavia la ragione reale appare essere un’altra, come esposto dal Washington Post in un articolo del 3 maggio, ovvero essersi prodigato notevolmente con Israele appoggiando l’attacco in Iran.
La politica estera di Trump è finora decisamente condizionata dalla fazione isolazionista, che oltre ad avere esponenti di rilevo all’interno del gabinetto, gode del sostegno incondizionato esterno di Stephen Bannon, il quale, pur non avendo un ruolo ufficiale all’interno dell’amministrazione è legato ideologicamente a personaggi come Tulsi Gabbard e il vicepresidente J.D. Vance e intercetta la componte più oltranzista del movimento MAGA.
L’impulso isolazionista presente anche nella prima Amministrazione Trump, era tuttavia mitigato da figure se non apertamente interventiste come John Bolton, grande sostenitore di Israele e dell’intervento militare in Iran, da altri funzionari come Mike Pompeo e Nikki Haley. Il dossier israelo-palestinese veniva gestito dal genero di Trump, Jared Kushner e dell’ex ambasciatore degli Stati Uniti, David Friedman, assai vicino alle organizzazioni israeliane a difesa degli insediamenti. In questo contesto, Israele godeva di un ruolo privilegiato e protetto che ora non è più blindato. È di questo che occorre essere consapevoli. La vicinanza di Trump a Israele è, al di là di una personale simpatia, priva di una radice ideologica forte, ed esposta facilmente all’influenza di chi lo circonda.
Priorità
Nell’imminente viaggio in Medioriente che comincerà il 13 e si concluderà il 16 maggio, Trump verrà ricevuto in Arabia Saudita, dove si recò come prima tappa all’estero durante il suo mandato presidenziale precedente, e quindi negli Emirati e in Qatar. Non è prevista, salvo sorprese, una visita in Israele.
Con la guerra ancora in corso a Gaza e i negoziati avviati con l’Iran, difficilmente ci potrà essere qualche risvolto politicamente rilevante. L’Arabia Saudita ha posto come precondizione per un accordo con Israele che venga prima in essere uno Stato palestinese, e allo stato attuale delle cose il coronamento degli Accordi di Abramo, il maggiore e unico successo della politica estera trumpiana, appare lontano. A Riad, Trump si occuperà soprattutto di affari, della cooperazione statunitense-americana per un accordo sul nucleare ad uso civile, della vendita di armi per cento miliardi di dollari e dell’impegno da parte saudita di investimenti negli Stati Uniti per l’ammontare di un trilione di dollari. Si parlerà anche, probabilmente, dei progetti di costruzione di due Trump towers, una a Gedda e l’altra a Riad. In Qatar, principale sponsor di Hamas, Trump ritoverà invece l’Emiro Tamim Al Tahani, già ricevuto in Florida nel 2024 e definito “uomo di pace”, definizione rilanciata recentemente da Steve Witkoff in una intervista a Tucker Carlson ed estesa a tutta la leadership qatariota. E anche in Qatar si parlerà molto di affari. Il Fondo di Investimento del Qatar, che ha rilevato salvandolo dalla bancarotta, il Park Lane Hotel di Steven Witkoff, ha intenzione di investire ulteriori 35 miliardi di dollari negli Stati Uniti, che si aggiungono ai 45 già impegnati nel 2019.
Scenario con incognite
Chi pensava che dopo le tensioni con l’Amministrazione Biden, che dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas ha pesantemente interferito con la sua gestione e il suo indirizzo, con l’avvento dell’Amministrazione Trump si sarebbe passati agevolmente a un sostegno pieno e fattivo nei confronti dello Stato ebraico, ha dovuto finora ricredersi. Trump non è disposto a firmare alcuna cambiale in bianco ne a fare facili concessioni. La stuazione è molto cambiata ed è, per Israele, frastagliata da diverse incognite.
Dopo l’annuncio dirompente della volontà di trasformare Gaza in un resort e quindi di trasferire altrove la popolazione, annuncio che di fatto non ha prodotto alcun risultato concreto, dopo avere più volte annunciato per Hamas fuoco e fiamme se non libererà gli ostaggi, Trump si è mosso a zig zag, evitando di affrontare di petto la crisi ancora in corso. Tuttavia agli annunci sono poi seguite azioni che hanno messo Israele sul chi vive. L’imprevedibilità di Trump, una mancanza di strategia coerente e l’influenza marcata su di lui degli isolazionisti rappresentano una doccia fredda su ogni facile ottimismo.
