Interviste

Mosaico ucraino: Intervista a Massimiliano Di Pasquale

Torna ospite de L’informale Massimiliano Di Pasquale, ricercatore associato dell’Istituto Gino Germani di scienze sociali e studi strategici; ucrainista, esperto di Paesi post-sovietici, che negli ultimi anni si è occupato di disinformazione, guerra ibrida e misure attive. La presente intervista ruota attorno alla cultura ebraico-ucraina, esplorata dall’autore nel libro Ucraina terra di confine. Viaggi nell’Europa sconosciuta.

Dott. Di Pasquale, è stato finalmente ristampato il suo lavoro intitolato Ucraina terra di confine. Viaggi nell’Europa sconosciuta. Può raccontarci la storia editoriale del libro? Come nasce e perché ha deciso di ristamparlo con alcune aggiunte?

Ucraina terra di confine, pubblicato nel maggio 2012 da una piccola casa editrice abruzzese, Il Sirente, che ebbe il coraggio di scommettere su un autore agli esordi e su un luogo, l’Ucraina, pressoché sconosciuto al pubblico italiano, era il frutto di un lavoro di lunga riflessione iniziato quasi per caso nel 2004.

Quando nel luglio del 2004 atterrai per la prima volta a Boryspil, l’aeroporto internazionale di Kyiv, non potevo definirmi certo un esperto di Ucraina. Prima della partenza avevo cercato di documentarmi su questa ex repubblica sovietica, ma il materiale che avevo trovato era piuttosto scarso. In italiano, ad eccezione di un testo dal taglio accademico, Civiltà Letteraria Ucraina di Oxana Pachlovska, non esisteva quasi nulla. Le prime nozioni sul Paese, utili a un viaggiatore, le appresi leggendo l’unica guida allora in commercio, pubblicata nel gennaio 2004 dalla Bradt, una casa editrice inglese. L’aveva scritta Andrew Evans, un ragazzo americano che, dopo aver vissuto a Kharkiv per un lungo periodo, si era talmente innamorato dell’Ucraina da tornarci regolarmente ogni anno.

Fu proprio Andrew, con cui nel frattempo era nata una bella amicizia, a suggerirmi qualche tempo più tardi di scrivere un libro che raccontasse agli italiani questo straordinario Paese. Analogamente a quanto era successo a lui qualche anno prima anch’io ero stato colpito dal mal d’Ucraina. A quel primo viaggio dell’estate 2004 ne erano seguiti altri. Tutti emozionanti e a loro modo unici. Quando nell’estate del 2007 il progetto del libro iniziò a prendere forma avevo già visitato più di venti città, incontrato diversi personaggi tra intellettuali, scrittori, ex dissidenti e soprattutto avevo trascorso lunghissime ore all’interno di vecchi vagoni ferroviari sovietici e scalcinate marshrutka, incontrando tanta gente desiderosa di raccontarmi la propria vita, le proprie esperienze, la propria Ucraina. L’opera, uscita in concomitanza con Euro 2012 il campionato europeo di calcio organizzato da Polonia e Ucraina, fu un piccolo caso editoriale. L’idea di raccontare l’Ucraina attraverso un diario di viaggio che mescolasse alle impressioni raccolte visitando città diversissime la storia, le tradizioni e gli aneddoti di questi luoghi e dei loro abitanti si rivelò vincente conquistando critici e lettori. 

Quando nel novembre 2013 scoppiò a Kyiv la protesta di piazza conosciuta come Euromaidan, che poi originò l’occupazione russa della Crimea e l’inizio in Donbas di un conflitto che da 8 anni vede contrapposti un Paese che rivendica la propria indipendenza e appartenenza al mondo liberale e democratico dell’Europa e un altro, incapace di riformarsi perché culturalmente alieno ai concetti di libertà, democrazia e rule of law, che usa la forza e la violenza per ricostituire un Impero dissoltosi 31 anni fa, Ucraina terra di confine era l’unico testo a disposizione dei lettori italiani desiderosi di capire ciò che stava accadendo in questa lontana provincia “russa”.

La nuova edizione di Ucraina terra di confine che esce a 10 anni di distanza, in un panorama editoriale completamente mutato (dal 24 febbraio 2022 gli scaffali delle librerie si sono riempiti di tanti volumi sull’Ucraina, molti dei quali scritti da intellettuali organici alla nazione occupante, altri ancora da personaggi mediatici che si spacciano per esperti ma che in realtà poco sanno di questo Paese) valorizzata da una rinnovata veste grafica e da una nuova prefazione scritta dalla giornalista e saggista Anna Zafesova, si arricchisce di quattro nuovi capitoli. Tre sono reportage legati ai luoghi della guerra, in particolare quelli relativi a Horlivka e a Chernihiv, città che seppure in modo diverso hanno patito sulla pelle dei propri abitanti la sedicente “denazificazione” del Cremlino con il suo contorno di morte, distruzione, stupri e deportazioni. Il quarto capitolo, intitolato La guerra di Putin all’Occidente, è un breve saggio che esamina cause e conseguenze del conflitto in atto con un’attenzione particolare al tema della guerra ibrida e della disinformazione, concetti chiave per comprendere la portata dell’attacco della Russia di Putin al mondo democratico occidentale.

Dalla lettura del suo libro, emerge una vivace dimensione ebraica che si è espressa soprattutto nella letteratura. Quali caratteristiche della storia e della cultura ucraina hanno permesso una tale vitalità dell’ebraismo? 

L’Ucraina è un Paese poliedrico dalle infinite sfaccettature. Visitandolo è possibile scorgere tante sedimentazioni storiche e culturali: esiste un’Ucraina ‘polacca’, ‘asburgica’, ‘magiara’, ‘rumena’, ‘tatara’, ‘armena’, ‘greca antica’, ‘mitteleuropea’ e sicuramente anche un’Ucraina ebraica. Credo che il motivo di questa straordinaria poliedricità sia dovuto al fatto che l’Ucraina è stata per più di trecento anni parte integrante dello Stato polacco. Questo ha fatto sì che l’Ucraina abbia elaborato gli anticorpi per non farsi inglobare nella cultura politica amorfa e totalizzante dell’Ortodossia moscovita, fonte ancora oggi di violenze, sopraffazioni e morte. 

Venendo alla straordinaria vitalità della cultura ebraica in territorio ucraino per comprendere il suo sviluppo è importante sottolineare come la storia dell’Ucraina sia sempre stata caratterizzata da confini mobili per via dei tentativi di dominazione da parte di altri popoli, in primis la Russia. Tutto ciò si è riflesso anche in ambito culturale e artistico dove la presenza di etnie diverse ha prodotto vari generi letterari, contaminazioni, espressioni e modi di usare la lingua.  Ed è proprio per questo motivo che la letteratura ebraica dell’Ucraina ha sempre avuto una sua specificità. 

Se volessimo azzardare una definizione potremmo dire che il panorama letterario e più in generale culturale ebraico in Ucraina è ibrido e policromo. Ciò risulta evidente leggendo autori come Joseph Roth, Isaak Babel e Vasily Grossman. Roth per esempio era un ebreo affascinato dal cattolicesimo della Corona Asburgica, Grossman arrivò a recuperare le sue radici ebraiche dopo una iniziale fascinazione per i bolscevichi. In Babel invece l’amore per la cultura ebraica si esprime attraverso il mito di Odessa, che è la vera protagonista della sua produzione migliore.     

L’Ucraina, come tutte le nazioni occupate dalla Germania nazista, ha avuto i suoi collaborazionisti che hanno preso parte alla deportazione e allo sterminio degli ebrei. La coscienza nazionale ucraina come ha elaborato la memoria della Shoah? 

Il tema del collaborazionismo in Ucraina è un tema sensibile perché è stato ed è tuttora usato dalla propaganda sovietica e russa per demonizzare gli ucraini dipingendoli come nazisti e antisemiti. La verità è che in Ucraina, come in tutte le nazioni occupate dalla Germania nazista, si sono verificati episodi di collaborazionismo, seppure in misura minore che, per esempio, in Francia e Italia. Il tema dell’Olocausto in Ucraina merita altresì una riflessione storica per comprendere come, con la dissoluzione dell’URSS e la proclamazione dell’indipendenza nel 1991, la coscienza nazionale ucraina abbia elaborato la memoria della Shoah. Partiamo dagli eventi di Babyn Yar. Nel dopoguerra su questo eccidio, avvenuto nel settembre 1941 a Kyiv ad opera dei nazisti, che rappresentò l’efferato apice dell’Olocausto in Ucraina il Cremlino aveva fatto calare una coltre di silenzio. 

Antonella Salomoni, una storica italiana che ha studiato a fondo queste vicende, sostiene che adottando il punto di vista interno alla storia dell’URSS l’impressione complessiva che si ricava dall’analisi della letteratura pubblicata nel paese sino alla fine degli anni Ottanta è che la Shoah non sia mai stata pensata e problematizzata come un evento centrale del Ventesimo secolo. Fino alla metà degli anni Ottanta non si parlò affatto della sorte toccata agli ebrei a Babyn Yar e più in generale agli ebrei ucraini. Anche a Berdychiv, altro luogo in cui si consumò un eccidio di ebrei sempre nel settembre del 1941, il monumento, eretto nel 1987 quando si tenne la prima cerimonia pubblica in onore delle vittime, non contiene un solo riferimento al fatto che a essere uccisi e gettati nelle fosse erano stati cittadini ebrei. La dicitura “Pacifici cittadini sovietici”, che accompagna il monumento, cela il fatto che le 18.640 vittime erano di stirpe ebraica. 

La prima commemorazione di Babyn Yar, quale eccidio verso gli ebrei, avvenne solo nell’ottobre 1991 sponsorizzata dalle autorità ucraine. Come ha fatto acutamente notare lo storico Serhii Plokhy per decine di migliaia di ebrei fu quella la prima volta nella loro vita in cui poterono manifestare apertamente la loro identità. Per decine di migliaia di cittadini non-ebrei la prima in cui riconobbero l’identità soffocata della seconda minoranza del Paese. Nel suo discorso commemorativo di fronte alla folla e alle delegazioni di URSS e Stati Uniti Leonid Kravchuk, speaker della Rada Ucraina che due mesi più tardi sarebbe stato eletto Primo Presidente dell’Ucraina indipendente, sottolineò i valori della tolleranza e del rispetto dei diritti umani e della vita umana.

Kravchuk, che era stato testimone da bambino dei massacri degli ebrei in Volinia ed era a conoscenza della partecipazione nella tragedia dell’Olocausto di milizie ucraine reclutate dai nazisti, concluse il suo commovente discorso in yiddish dopo essersi scusato con la gente ebraica a nome della nazione ucraina. Il 1° novembre 1991 la Rada Ucraina adottò una Dichiarazione sui Diritti delle Nazionalità presenti in Ucraina che garantiva parità di diritti ai cittadini di ogni origine.

Il legame tra ucraini ed ebrei si è rafforzato negli ultimi anni grazie al conflitto tra Russia e Ucraina. La partecipazione attiva a Euromaidan delle   comunità ebraiche ucraine segna una svolta epocale nella storia del Paese. Per la prima volta c’è una vera collaborazione fra ucraini ed ebrei accomunati dal desiderio di vivere in un’Ucraina, libera, democratica non soggetta al dominio imperiale di Mosca. 

Nel suo testo segue le tracce di numerosi scrittori ucraini, da Bruno Schulz a Vasily Grossman, a suo avviso quale scrittore incarna meglio il destino della nazione? 

Non è facile rispondere a questa domanda perché tutti gli scrittori citati nel mio libro sono a loro modo emblematici del destino della nazione, penso per esempio al poeta nazionale Taras Shevchenko la cui opera e la cui icona sono tuttora fonte di ispirazione per la lotta degli ucraini contro l’imperialismo russo. Venendo a quelli dalle radici ebraiche, Vasily Grossman, a causa dell’evoluzione politica, culturale e umana che matura in lui nel corso degli anni, che lo porterà ad abiurare il leninismo e a evidenziare le tragiche affinità tra nazismo e stalinismo, è sicuramente il più interessante. Grossman, secondo solo a Orwell e a Vasyl Barka, fu tra i primi a denunciare nel bellissimo Tutto Scorre, il genocidio di Stalin nei confronti degli ucraini in seguito noto come Holodomor. Questo senza nulla togliere a Bruno Schulz il cui genio visionario fu definito da Isaac Bashevis Singer, in una famosa intervista rilasciata a Philip Roth, superiore a quello di Frank Kafka. 

Lei dedica delle bellissime pagine alla Galizia, un luogo culturale prima ancora che geografico, quali sono le caratteristiche che rendono importante questa regione? 

La Galizia è una regione di grande fascino da un punto di vista geografico ed etnografico, basti pensare che la sua popolazione, specie quella dei villaggi di montagna dei Carpazi, vive ancora oggi un rapporto simbiotico con la natura costellato di riti e credenze ancestrali. Per quasi centocinquant’anni, dal 1772 al 1918, questa terra è stata la provincia più orientale dell’Impero Austriaco e ha sempre esercitato una straordinaria attrazione su scrittori e viaggiatori per il crogiolo di etnie e culture che vi convivevano, in modo sostanzialmente pacifico, sotto la Corona Asburgica. Per questa ragione costituisce un vero e proprio luogo culturale e dell’anima. In Galizia nacquero, tra gli altri, Joseph Roth, Stanisław Lem, Leopold von Sacher-Masoch e il regista di Viale del Tramonto, Billy Wilder. 

Nel 1924, in un articolo per il “Frankfurter Zeitung”, proprio Roth scrisse che la sua regione natale, pur giacendo in solitudine, non era affatto tagliata fuori dal mondo e possedeva più cultura di quanto si potesse superficialmente immaginare. La Galizia, nonostante sporcizia, povertà, alcolismo e analfabetismo – piaghe peraltro comuni a tante zone dell’Europa dell’Ottocento – era una terra feconda a livello letterario e nella quale i contrasti sociali, talvolta anche aspri, non degenerarono mai. Solo quando nel 1918 il Regno di Galizia e Lodomiria cessò di esistere – la Galizia venne annessa alla Polonia e la Bucovina alla Romania (oggi la maggior parte di questi territori fa parte dell’Ucraina) –, si incrinò anche quella straordinaria cultura della tolleranza asburgica che per un secolo e mezzo aveva scongiurato eccidi e violenze.

Vent’anni più tardi, con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale, si assisterà infatti alla definitiva distruzione del multiculturalismo di questa regione prima con il genocidio nazista, poi con gli stermini dello stalinismo. Il suo capoluogo, Leopoli (in ucraino Lviv), è sicuramente la città più raffinata dell’intera Ucraina.  Ancora oggi, percorrendo le sue eleganti vie, si ritrovano atmosfere molto simili a quelle ritratte da Stanisław Lem nel racconto autobiografico Il Castello Alto, ambientato nella Leopoli a cavallo tra le due guerre. A livello visivo l’attuale Lviv, con la sua vasta teoria di chiese – Domenicana, Carmelitana, Gesuita e Benedettina – e i tanti palazzi secessionisti, soprattutto a sud-ovest della Città Vecchia, paga più di un tributo alle due precedenti incarnazioni: l’austriaca Lemberg e la polacca Lwów.

Negli ultimi 30 anni, quelli dell’indipendenza, Lviv, assieme a Kyiv, ha rappresentato l’avamposto politico-culturale contro il neo-imperialismo russo fornendo linfa vitale per la nascita di un’Ucraina democratica, europea e de-sovietizzata.

Prima dell’invasione, l’Ucraina sembrava lontana da noi, ma ora si è avvicinata nella vertigine della guerra, a quali ragioni imputa la nostra mancata conoscenza di un Paese così rilevante sotto il profilo culturale e politico? 

L’Italia è afflitta da un provincialismo culturale endemico che è stato costantemente alimentato da un ecosistema politico e mediatico da sempre permeabile alle narrazioni politico-culturali prima sovietiche oggi russe. Nonostante la brutale aggressione russa costellata di uccisioni, stupri sulla popolazione civile ucraina di questi mesi, molto deve ancora cambiare nel nostro Paese.   

Emblematico è un episodio accaduto proprio in questi giorni. Il concerto di Serhiy Zhadan, uno dei più noti scrittori ucraini, che doveva esibirsi con la sua rock band “Zhadan and the dogs” il 2 settembre in un locale di Paderno Dugnano, nell’hinterland milanese, è stato cancellato dallo stesso club perché, si sostiene, che i proventi di queste esibizioni live finanzierebbero l’esercito ucraino e la guerra.  Nonostante Zhadan abbia precisato che si tratta di un tour di beneficenza il cui ricavato avrebbe finanziato l’acquisto di auto e non di armi, il locale ha confermato l’annullamento trincerandosi dietro il solito pacifismo di facciata.

Nell’ottobre 2018 allo scrittore Zakhar Prilepin, convinto sostenitore di Putin e dei mercenari russi delle sedicenti repubbliche popolari di Luhansk (LNR) e Donetsk (DNR) , fu permesso di fare un tour in Italia di ben 4 date.  Prilepin, ex militante del partito Partito Nazional-Bolscevico come Limonov con il quale condivide il gusto per le provocazioni teatrali e per la violenza, il 13 febbraio 2017, aveva annunciato ufficialmente la formazione di un battaglione di volontari nella DNR sostenendo che il motivo della sua presenza in Donbas non fosse di carattere letterario ma di effettivo supporto militare, in qualità di ufficiale, ai separatisti e alle forze russe contro il governo di Kyiv. 

Se, malauguratamente, l’Ucraina dovesse finire nelle mani di Putin, quale sorte toccherebbe all’identità ucraina?

Se l’Ucraina venisse conquistata da Putin subirebbe un processo di russificazione e di genocidio non solo culturale nei confronti della popolazione, qualcosa di molto simile a quanto avvenuto negli anni Trenta con Stalin, il cui culmine fu il Holodomor (1932-1933). Autorevoli storici ed esperti di genocidio, rifacendosi alla Convenzione sul Genocidio, sono concordi nel ritenere che le azioni del governo russo in Ucraina e verso il popolo ucraino siano configurabili come atti genocidari. La Federazione Russa, nella sua invasione dell’Ucraina, è responsabile come Stato per le violazioni della Convenzione sul Genocidio dal momento che ha promosso politiche ed azioni che hanno istigato e incitato al genocidio. 

Funzionari russi di alto livello e commentatori dei media statali hanno ripetutamente e pubblicamente negato l’esistenza di una distinta identità ucraina, il che implica che coloro che si autoidentificano come ucraini sono una minaccia all’unità della Russia, sono nazisti e quindi meritevoli di punizione. La negazione dell’esistenza di gruppi protetti è un indicatore specifico di genocidio secondo la guida delle Nazioni Unite per valutare il rischio di atrocità di massa.

La campagna di istigazione orchestrata dallo Stato russo collega apertamente l’attuale invasione alle battaglie esistenziali dell’Unione Sovietica con la Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale, amplificando l’impatto della propaganda sul pubblico russo per commettere o perdonare atrocità di massa. Il 5 aprile 2022, Dmitry Medvedev, attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, ha scritto: “essendosi trasformata nel Terzo Reich… l’Ucraina subirà la stessa sorte… quello che si merita! Queste attività non possono essere completate istantaneamente. E non saranno decise solo sui campi di battaglia”.

Il giorno prima del celebratissimo Giorno della Vittoria, che segna la vittoria sovietica sulla Germania nazista, il presidente Putin ha inviato un telegramma ai separatisti sostenuti dalla Russia affermando che i russi stanno combattendo “per la liberazione della loro terra natale dalla sporcizia nazista”, giurando che “la vittoria sarà nostra, come nel 1945”. La Chiesa ortodossa russa ha pubblicamente rafforzato questo parallelo storico e ha elogiato la lotta della Russia contro i “nazisti ucraini”.

 

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