Israele e Stati Uniti

Liberarsi dall’illusione che Trump sia un sincero amico di Israele

Potrebbe essere salutare per i molti che ci credono, e che nonostante i fatti li smentiscano si girano dall’altra parte infastiditi, liberarsi dall’illusione che Donald Trump sia un sincero amico di Israele, un suo robusto sostenitore. Così facendo renderebbero prima di tutto un servizio a se stessi, perché è sempre una buona cosa conformarsi alla realtà anche quando essa risulta sgradevole e contraria alle nostre aspettative, e poi perché se, per un improvviso cambiamento di umore, Trump dovesse realmente fare qualcosa di pro israeliano proverebbero una sorpresa e un sollievo genuini.

Bisogna lasciarsi alle spalle il primo quadriennio trumpiano (2017-2021) quando in virtù di un team pro-israeliano a formazione di testuggine: Jared Kushner, Mike Pompeo, David Friedman, Nikki Halley, Jason Greenblat, Mike Pence, Trump prese decisioni dirompenti a favore di Israele, che nessun altro presidente americano prima di lui aveva mai preso. Il presente ci offre un altro spaccato. Innanzitutto c’è una guerra ancora in corso che Israele non ha ancora vinto e non si sa se vincerà, e Trump è nemico delle guerre, lui che è convinto che tutto possa risolversi con dei negoziati, che assassini feroci, dittatori spietati, teocrati arcigni, troveranno più conveniente e fruttuso rinunciare alla loro indole e ammorbidirsi. Di seguito abbiamo già, dopo cento giorni di presidenza, segnali non proprio di particolare e benevola attenzione nei confronti di Israele, come la decisione di accordarsi con gli Houti subito dopo che un missile dei ribelli yemeniti aveva raggiunto i pressi dell’aeroporto Ben Gurion, la dichiarazione che l’accordo con l’Arabia Saudita sulla cooperazione per lo sviluppo del nucleare civile può procedere anche senza un previo accordo di distensione con Israele, l’accantonamento del piano di attacco ai siti nucleari iraniani, l’imposizione a Netanyahu di accordarsi con Hamas per la liberazione degli ostaggi, (accordo il cui impianto è quello voluto da Joe Biden e che Netanyahu aveva sempre respinto), e ora la sollecitazione di riprendere gli aiuti umanitari nella Striscia che hanno di fatto avvantaggiato sempre Hamas. Questi sono i fatti, poi c’è un annuncio roboante, cifra trumpiana per eccellenza, che prevede la trasformazione di Gaza in un resort di lusso e l’espulsione della sua popolazione, a cui non è seguito nulla di concreto.

Ora che Israele sembra intenzionato a una offensiva a Gaza dal respirio ampio, Trump appare contrariato. Sicuramente lo è il Qatar, grande sponsor di Hamas, a cui ha elargito dal 2007 ad oggi, circa due miliardi di dollari, e dove Trump si recherà a breve e ricevera in omaggio un lussuoso Boeing 747-8 del valore di 400 milioni di dollari, sicuramente di più dei famosi diamanti che Bokassa donò a Giscard d’Estaing. Bokassa ricompensava il presidente francese per i favori ricevuti, la cosca qatariota degli Al Tahani si ingrazia il presidente americano in attesa dei favori che potra ricevere.

Trump lamenta che la ripresa della guerra rallenterà la ricostruzione di Gaza anche se non sa spiegare come iniziarla senza toglietre di mezzo Hamas e per la quale, il suo inviato in Medioriente e in Russia, Steve Witkoff, (a cui il Qatar ha rimpinguato le tasche con 635 milioni rilevando un albergo di sua proprietà a New York), ha stimato ci vorranno quindici anni.

Al netto dei proclami e delle ciance, c’è un modo solo di essere amici di Israele in un frangente come questo, in cui la sua reputazione internazionale è stata fatta a pezzi dalla propaganda, e dove si trascina una guerra da un anno e mezzo. Sostenerlo decisamente per concluderla, per mettere fine al governo omicida di Hamas e, insieme a questo obiettivo minimo, accordargli l’appoggio e il beneplacito per attaccare i siti nucleari in Iran, tagliando la testa della piovra senza perdere tempo con negoziati che, come ha detto John Bolton, sono solo consumo inutile di ossigeno.

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